Atto educativo, atto terapeutico, atto analitico*

Mario Bottone

Ringrazio i miei gentili ospiti, in particolare Moreno Blascovich, per l’invito a prendere parte a questo ciclo di seminari su “La formazione nelle istituzioni fra trasformazione e sovversione”. Il titolo di questa serata, “Atto educativo, atto terapeutico, atto analitico”, mi impegna sotto un triplice aspetto:

1) come docente, ossia come colui che “insegna”, che “imprime, secondo l’etimologia latina del verbo insegnare, segni nella mente”, al fine di formare, secondo quella paideia richiamata da Carmine Marrazzo nel suo intervento;

2) come terapeuta in un’azienda ospedaliera, ossia come colui che cura, secondo l’etimo greco therapéuo;

3) come psicoanalista nel privato, e qui l’etimo di analisi ci rinvierebbe alla soluzione, allo scioglimento delle formazioni psichiche complesse: sintomi, sogni, atti mancati ecc.

Si tratta di tre “atti” che si confrontano in modi diversi con l’impossibile. Curare, educare e governare sono tre “professioni” o “mestieri” – Beruf in tedesco comprende entrambi i termini – “impossibili”, come ricordava Freud nel 1937[1], ma anche prima, nel 1925[2]. Ritornerò più avanti su questi due testi.

In prima istanza, possiamo dire che l’impossibile di queste tre professioni risiede nel fatto che si rimettono al desiderio dell’altro: l’altro a cui si rivolgono queste professioni desidera veramente essere educato, curato e governato? […] veramente istituiamo da noi, in un secondo tempo, gli ordini che abbiamo ricevuto nell’infanzia? Tutti noi abbiamo colto gli insegnamenti che abbiamo ricevuto solo après-coup, e persino gli effetti di un’analisi si colgono in parte solo dopo. Diciamo che i due enunciati, quello materno e quello del bambino, si lasciano scrivere tranquillamente in due discorsi di Lacan: il discorso universitario e il discorso isterico (che non è l’isteria come struttura clinica). Laddove il discorso Universitario mette in posizione di resto il $, il soggetto del desiderio, situando in posizione di agente il sapere (S2), il discorso Isterico fa cadere questo sapere inteso come insieme di significanti, situandolo in posizione di resto, e collocando in posizione dominante proprio il soggetto del desiderio, $. Lacan aveva anticipato tutto questo nel rapporto tra Socrate, il maître, e Alcibiade, “il desiderante per eccellenza”[3]. È noto il fallimento di Socrate nei confronti di Alcibiade, che non ha mai ceduto sul suo desiderio. Lacan, in fondo, ne fa l’elogio, [4]ed eccomi al punto principale: siamo all’altezza di quanto c’è di radicale nel discorso di Lacan? Gli esempi non mancano, quando per esempio considera l’atto di Madeleine, la donna di Gide, che distrugge tutte le lettere d’amore che quest’ultimo le aveva scritto, come un atto di vera donna, e lo paragona all’atto di Medea, colei che uccide i figli dopo che Giasone l’ha abbandonata[5]; oppure quando vede nella radicalità del gesto di Antigone l’essenza tragica dell’esperienza analitica, giacché è dall’esempio di Antigone che ricava quell’imperativo secondo cui il tradimento consiste nel “cedere sul proprio desiderio”[6]. In questi atti si tratta sempre di eroine solitarie.

Il fatto è che anche in un’analisi, diversamente da quanto accade nella terapeutica istituzionale e nell’educazione – che sia quella dell’istituzione familiare o scolastica o altrove – l’analista, l’interprete, è “il solo capitano a bordo”, come scrive Lacan[7]. L’analista è “libero” circa il momento dell’intervento, nonché la scelta di questo intervento[8]. Dunque, “solo”, dice Lacan, marcando così che questa libertà ha un prezzo: la solitudine e “una sorta di orrore freddo” richiesta dall’adesione sufficiente al discorso analitico[9]. Di fatto, a proposito di questo “orrore freddo”, bisogna ricordare che “lo psicoanalista nella psicoanalisi non è soggetto, e che, se si situa il suo atto secondo la topologia ideale dell’oggetto a, se ne deduce che egli opera in quanto non pensa”[10]. Infatti, se l’oggetto a non è un oggetto speculare, ossia non ha immagine, e se di esso non vi è idea[11], allora situare l’atto dell’analista dal lato dell’oggetto a – di cui, ricordiamoci, l’analista si fa sembiante senza esserlo – significa che il suo atto non deve nulla al pensiero. Come analista, aggiunge Lacan, “Io non penso”[12]. In effetti, ricordo per inciso, che l’atto analitico non si confonde con la “direzione di coscienza”[13], la quale richiede che il soggetto pensi, laddove Lacan sottolinea ciò che di reale c’è nell’atto. Di realevuol dire che non è rappresentabile, né con le immagini né con il pensiero. A far cadere la negazione sul cogito non è un atto di volontà operato dalla persona dell’analista ma il luogo, in senso topologico, in cui si colloca il suo atto. È il caso, per esempio, di quella “atopia” dell’analista che Lacan vede incarnata in Socrate, e qui vediamo che Socrate riesce meglio come analista che come educatore[14]. Atopia dell’oggetto a, di cui l’analista si fa sembiante. […]

In verità, e a proposito dell’atto educativo, Lacan è arrivato persino a congiungere questo dire, nella sua attività seminariale, ossia nella sua attività di insegnamento, con il tentativo di fare ciò che chiama édupation, neologismo in forma di sostantivo che condensa “dupe”, il “minchione, l’ingannato, la persona facile da ingannare”, e “éducation”, educazione[15]. È intraducibile, potremmo dire che si tratta di un’educazione che rende fessi. Ci ritornerò, non senza concludere questa parte richiamando la mia insofferenza in quelle riunioni di equipe cui partecipavo un tempo che si proponevano come “uno spazio per pensare”. Ho sempre trovato più interessante in queste riunioni l’emergenza di un lapsus, ossia di quell’esp di un laps in cui si rivela qualcosa dell’inconscio reale[16].

Naturalmente, c’è una formazione dell’analista. Infatti, per funzionare come sembiante dell’oggetto a e non come soggetto di sapere, come soggetto che pensa, come cogito, l’analizzante ha dovuto svolgere il suo percorso, iniziato istituendo l’analista come soggetto supposto sapere, risorsa necessaria del transfert, per arrivare infine a destituire soggettivamente il suo analista del sapere che gli aveva supposto. D’altra parte, l’analista è l’unico a poter mettere in causa questa funzione del soggetto supposto sapere, poiché il suo atto avviene in un dire che cambia il soggetto, innanzitutto permettendogli progressivamente di destituirlo. Lacan insiste molto sul fatto che l’essenziale, dal punto di vista dell’atto, non è che alla fine dell’analisi lo psicoanalista divenga per l’analizzante l’oggetto causa di desiderio, ma che l’analista sia implicato come sembiante dell’oggetto causa di desiderio sin dall’inizio e lungo tutto il percorso.

Come sappiamo, la questione della formazione dell’analista è stata avviata da Freud. Ritorno così sui due testi freudiani citati all’inizio. Innanzitutto “Analisi terminabile e interminabile” del 1937. Qui Freud scrive che “non si può pretendere che chi vuole diventare analista, prima ancora di occuparsi di analisi, sia un individuo perfetto, e che quindi debbano dedicarsi a questa professione soltanto coloro che siano dotati di una così alta e rara compiutezza. E comunque, donde e in che modo potrà il poveretto acquisire quell’ideale attitudine che gli sarà necessaria nella sua professione [Beruf]? La risposta è: nell’analisi personale, dalla quale prende le mosse la sua preparazione per l’attività futura. Per motivi pratici quest’analisi può essere soltanto breve e incompiuta; suo scopo principale è di consentire al didatta di giudicare se il candidato può essere ammesso a un ulteriore addestramento”[17].

Vi faccio notare i termini usati da Freud. Quello che in italiano viene tradotto con didatta in tedesco è Lehrer: il maestro, ed è con maître, infatti, che Laplanche l’ha tradotto in francese in modo corretto[18], giacché didatta in tedesco si dice Didaktiker. Lehrer: il maestro, dunque, ma anche il professore, a cui spetta l’Urteil sul candidato, che in tedesco è il “giudicare”, “giudizio”, ma anche la “sentenza” in senso giuridico. Il termine tedesco per “addestramento” è Ausbildung, ossia la “formazione”, il “percorso formativo”; berufliche Ausbildung è la “formazione professionale”. Lascio al dibattito una riflessione su questi termini, che mettono in gioco un impasto, per usare un termine freudiano, tra il discorso del maître, quello universitario e, infine, quello dell’analista. Non ci dobbiamo meravigliare se nell’IPA esistono funzioni che ricoprono il discorso Universitario: associato e ordinario.

Lascio da parte i problemi che Freud individua in questo “percorso formativo”, e passo all’altro testo, “Prefazione a ‘Gioventù traviata’ di August Aichhorn”, che chiama in causa la pedagogia, visto che August Aichhorn era un educatore, che si occupava del verwahrlost, dell’abbandonato, di colui che è andato in rovina, tradotto in italiano con traviato. Della posizione di Freud in questo testo, trattengo sinteticamente alcuni tratti tra loro correlati.

Innanzitutto, non si meraviglia affatto dell’applicazione della psicoanalisi all’educazione infantile. E come potrebbe meravigliarsi dal momento che il bambino è l’oggetto principale dell’investigazione psicoanalitica? Infatti, è proprio “la sopravvivenza del bambino, modificato appena” che l’analisi ha mostrato nel malato[19]. “Modificato appena”: il bambino perverso polimorfo è forse quanto c’è di ineducabile nell’uomo, visto che non sopravvive solo nel malato, ma anche nel sognatore – e chi non lo è? – e nell’artista[20].

In secondo luogo, si tratta di distinguere l’influsso esercitato dalla psicoanalisi da quello esercitato dall’educatore. Qui Freud effettua una distinzione netta tra la “post-educazione” operata dall’analisi e “l’educazione degli immaturi”[21], di cui si occupava Aichhorn, ossia di coloro che, sempre Freud, definisce “casi patologici ‘al limite e di origine mista [bei Grenz- und Mischfällen]’”[22]. Casi al limite e di origine mista, ossia borderline, come si è detto da un certo momento in poi. Lasciamo da parte quest’ultimo punto, e sottolineiamo il fatto che l’analisi è una post-educazione, come aveva già affermato prima in “Psicoterapia”[23], e poi in “Introduzione alla psicoanalisi”, ove con l’ausilio della suggestione la psicoanalisi “opera nel senso di una educazione”[24], ossia sostituisce il principio di realtà al principio di piacere. Mi sono sempre chiesto se questa post-educazione, che chiama in causa l’influsso psicoanalitico – e che certamente richiede quella premessa costituita da ciò che Freud chiama “situazione analitica”, ossia lo sviluppo di determinate strutture psichiche e una particolare impostazione verso l’analista[25] – non metta l’analista nella posizione dell’Ideale dell’io, e in particolare dell’Ideale dell’io paterno[26]. La risposta che Catherine Millot dà a questa domanda, nel testo citato da Carmine Marrazzo, è negativa[27], quantunque riconosca che ha aperto la strada proprio a questa posizione, il cui rappresentante principale è stata Anna Freud, con la sua “educazione psicoanalitica”, di cui riconoscerà nel 1965 lo scacco[28]. Non mi nascondo che c’è un altro Freud, evidenziato dalla Millot e dalla relazione di Patrizia per questo incontro. C’è il Freud della pulsione ineducabile, del desiderio irriducibile, del disagio nella civiltà ecc., ma entrambi, come riconosce la stessa Millot, analista e educatore, mirano a realizzare, con mezzi diversi, “il dominio del principio di realtà sul principio di piacere”[29].

Ora, è proprio il principio di realtà a fare problema per noi lacaniani, dato che la realtà è inquadrata dal fantasma, ed è ben altra cosa da ciò che chiamiamo reale, quel reale, come abbiamo visto, chiamato in causa dall’atto analitico. Come ha ben detto P. Gilli (durante il precedente intervento), citando Colette, l’atto è un’invenzione di Lacan. E mi chiedo se con il neologismo édupation Lacan non ci ha lasciato una traccia per pensare un’altra educazione, che, diversamente dai “non-dupes” che errano, ci rende “dupe” che non errano quanto al loro desiderio.

*Dal Seminario “La formazione nelle istituzioni fra trasformazione e sovversione” tenutosi il 17/04/2025.

[1] S. Freud (1937), “Analisi terminabile e interminabile” in OSF, vol. 11, p. 531.

[2] S. Freud (1925), “Prefazione a ‘Gioventù traviata’ di August Aichhorn”, in OSF, vol. 10, p. 181.

[3] J. Lacan, “Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano”, in Id., Scritti, Einaudi, Torino 1974, p. 829.

[4]

[5] J. Lacan, “Giovinezza di Gide o la lettera e il desiderio”, in Scritti, cit. p. 759. Per l’allusione a Medea, si veda l’esergo tratto dalla Medea di Euripide che fa da pista a questa lettura (p. 737).

[6] J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino 2008, p. 372.

[7] J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, in Scritti, cit., p. 583.

[8] Ibid.

[9] J. Lacan, Les non-dupes errent, inedito; lezione del 20 novembre 1973.

[10] J. Lacan, “L’atto psicoanalitico”, in Id., Altri scritti, Einaudi, Torino 2013, p. 371.

[11] Cfr. J. Lacan La Terza, trad. di M. Bottone, p. 10.

[12] J. Lacan, “L’atto psicoanalitico”, cit., p. 371.

[13] J. Lacan, “La direzione della cura e i principi del suo potere”, cit., p. 581.

[14] J. Lacan, Il seminario. Libro VIII. Il transfert (1960-1961), Einaudi, Torino 2008, p. 115.

[15] J. Lacan, Les non-dupes errent, cit., lezione del 8 gennaio 1974.

[16] Cfr. J. Lacan, “Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI”, in Altri scritti, cit., p. 563.

[17] S. Freud, Analisi terminabile e interminabile, cit., p. 531. Tengo in considerazione anche l’edizione tedesca, vol. XVI, pp. 94-95.

[18] Edizione francese delle opere complete di Freud; vol. 20, p. 50.

[19] S. Freud, “Prefazione a ‘Gioventù traviata’ di August Aichhorn”, cit., p. 182.

[20] Ibid.

[21] Ibid.

[22] Ivi, p. 183; edizione tedesca vol. XIV, p. 567.

[23] S. Freud (1904), “Psicoterapia”, in OSF, vo. 4, p. 438.

[24] S. Freud (1915-1917), “Introduzione alla psicoanalisi”, in OSF, vol. 8, p. 600.

[25] S. Freud, “Prefazione a ‘Gioventù traviata’ di August Aichhorn”, cit., p. 182.

[26] È proprio quanto ne trattiene August Aichhorn a proposito dell’educatore: “… nel delinquente un cambiamento del carattere equivale ad un cambiamento del suo ideale dell’ego e ciò avviene quando l’individuo assume nuove caratteristiche, il modello delle quali è appunto lo stesso educatore. Quest’ultimo costituisce l’importante oggetto, a mezzo del quale il fanciullo o il giovane dissociale può ricostruire l’identificazione incompleta o inesistente [all’ideale dell’io paterno] ed acquisire l’esperienza di tutte quelle cose in cui suo padre gli mancò. Con l’aiuto dell’educatore il giovane impara a formare i necessari rapporti affettivi con i suoi compagni, che gli permetteranno di vincere le tendenze dissociali. Il termine ‘sostituto del padre’, usato così spesso a proposito della pedagogia emendativa, riceve la sua più chiara spiegazione con questa definizione del compito dell’educatore. Nella terapia del ragazzo dissociale, il più valido aiuto è dato all’educatore dal transfert ed in particolare dal transfert positivo. Soprattutto attraverso l’affetto per il maestro, l’allievo è indotto a fare ciò che è prescritto ed a non fare ciò che è proibito ed il maestro – come oggetto a forte carica libidinale per l’allievo – gli fornisce elementi di identificazione, i quali conducono ad un mutamento durevole nella struttura dell’ideale dell’ego: in seguito a tale fenomeno, muta anche la condotta del ragazzo dissociale” (A. Aichhorn, Gioventù traviata, Bompiani, Milano, 1950, pp. 233-234). Come dire che l’educatore, qui sovrapposto al terapeuta, cerca l’amore dell’allievo (o del paziente). Punto ben sottolineato da C. Millot, Freud antipédagogue, Flammarion, 1997; p. 184. La prima edizione Navarin è del 1979.

[27] C. Millot, Freud antipédagogue, cit., pp. 184 sgg.

[28] A. Freud (1965), “Normalità e patologia nell’età infantile”, in Id., Opere, Boringhieri, Torino, 1985, vol. 3, p. 766. Infatti, proprio in questo testo del 1965, Anna Freud riconoscerà i limiti di questa posizione: “Non si è mai desistito dagli sforzi per raggiungere questa meta [l’educazione psicoanalitica], per quanto i risultati a volte fossero ardui e sconcertanti. Guardando ora alla storia di questi sforzi, dopo un periodo di più di quarant’anni, la vediamo come una lunga successione di prove ed errori” (ibid.).

[29] C. Millot, Freud antipédagogue, cit., p. 184.