Sono stata coinvolta in questo tema di oggi dal titolo un po’ enigmatico e piuttosto suggestivo : “ Il corpo solitario, nella fotografia e nell’autoscatto”. Devo confessare innanzitutto – onestamente – la sensazione di essere un po’ un’intrusa, in un contesto di lavoro, la fotografia, sulle cui espressioni artistiche  e competenze tecniche sono completamente ignorante. Dal che la domanda: cosa posso portare ? quale contributo possibile?

Quello che cercherò di portare – mi sono detta – sarà una mia testimonianza, nella prospettiva che la teoria e la pratica psicoanalitica mi consentono di avere su questo reale e questo concetto che è il corpo, aggiungo il corpo proprio.

Già parlando di prospettiva, uso e condivido un termine penso cruciale nell’approccio fotografico. Si studia una prospettiva, la si cerca, la si costruisce perfino, per cogliere l’“oggetto” dello sguardo in una certa angolatura e luce, in una profondità spaziale e dimensione temporale: cogliere qualcosa di una sua verità, strappare un’essenza che possa fissarsi e imprimersi in una pellicola e rendersi così visibile anche ad altri sguardi, indefinitamente riproducibile. Così uno scatto può eternizzare l’attimo fuggente e un particolare effimero può concentrare in sé tutto il peso di una storia e assurgere perfino a simbolo… penso a certe immagini che sono diventate un’icona… penso ad esempio a”Il bacio della vittoria”- New York, 14 agosto 1945 di Alfred Eisenstaedt… ma gli esempi possono essere moltissimi….

Allora cerco di addentrarmi un po’ nella prospettiva psicoanalitica rispetto a quell’ “oggetto” così speciale, unico, che è, per il soggetto umano, il proprio corpo. Unico, certo, perché non ne abbiamo che uno, e questo è un dato reale e radicale, che si sovrappone, o per meglio dire equivale alla consapevolezza del nostro limite e del fatto che – come si dice – di vita ce ne è una sola… intervallo breve o lungo che sia tra due momenti misteriosi e inconoscibili ,non padroneggiabili, la nostra nascita e la nostra morte. La vita continua, certo, c’era prima e ci sarà dopo di noi, è intorno, è ovunque, ma la nostra, uno per uno, consiste e puntualmente corrisponde all’essere in vita di un corpo come reale, non certo puro organismo, ma animato da un desiderio, da un godimento, orientato da un pensiero, quindi un essere in cui si annodano la dimensione reale, quella immaginaria e quella simbolica dell’esistenza.

Allora potremmo dire, anche se sembra un paradosso, che il corpo – nella sua realtà fisica, strutturale – è solo al mondo, per la sua stessa natura è “solitario” . E c’è un altro paradosso : la cosa più nostra e intima e conosciuta, può essere o diventare estranea e sorprendente, perché le sue trasformazioni – a cominciare da quelle sessuali nella pubertà, poi via via molte altre nel corso della vita, sfuggono in buona parte al nostro ideale di controllo, ci colgono impreparati – anche se sappiamo molte cose e siamo informati e aggiornati e oggi sempre di più – perché l’esperienza reale, nel vivo della carne è sempre altra cosa da quella immaginata… il sapere degli altri aiuta, il confronto può ripararci, mettere un velo, un effetto “flou” sulla crudezza dell’esperienza, ma non risparmiarci quel senso di solitudine che è il prezzo del vivere, in prima persona, i passaggi, i cambiamenti, i traumi con i quali, nella vita, siamo alle prese ….. Non do una connotazione qualitativa a questo scarto tra reale e immaginario, semplicemente è altra cosa.

Il neonato è un essere corporeo, e – dal punto di vista psichico – un coacervo di funzioni vitali e correnti pulsionali che devono potersi organizzare perché gradualmente da esse sorga un soggetto e si formi un Io che entra nei ritmi della vita (pappa sonno veglia ecc) e nello scambio simbolico e affettivo con l’Altro. Essere in vita non basta, per vivere : nessun piccolo d’uomo, lasciato solo, può sopravvivere, la sua dipendenza dalle cure dell’altro è totale, la sua inermità assoluta, al tempo stesso mancano degli istinti, a differenza del mondo animale, che orientino “naturalmente” gli esseri umani verso oggetti appropriati ai loro bisogni …casomai può verificarsi perfino il contrario…

Allora da questa condizione originaria di essere un corpo – in balia dell’Altro – si tratta, per ciascun bambino, di poter giungere, anche, ad averlo un corpo, ad appropriarsene, a farlo suo, a riconoscerlo, a dire questo sono io ! Entra in gioco, in questo processo, lo sguardo dell’Altro materno, per definizione, chiunque sia a svolgere questa funzione.

Lo sguardo, ovviamente, non è la vista, è piuttosto il “come” la vista si posa su un oggetto, come lo investe, con quali affetti e desideri e aspettative….con quale fiducia o apprensione o gioia ecc , impossibile elencare tutte le declinazioni possibili, infinite quanto – forse – le gradazioni della luce . Voglio però soffermarmi sulla funzione più essenziale, fondamentale, che lo sguardo ha per il divenire dell’essere umano, talmente importante che un suo difetto – all’origine – può compromettere anche gravemente il futuro destino, in senso psichico : lo sguardo dell’Altro lo prende, il bambino, tutto insieme e questo in una fase della vita in cui il neonato non ha alcuna percezione né cognizione dell’unitarietà del proprio corpo.

Lo sguardo lo avvolge, lo unifica, si traduce in gesti e atti che aiutano il bambino a realizzare un coordinamento nei suoi movimenti e a sperimentare il piacere che deriva da essi , e a imparare a identificarsi in una immagine che lo familiarizza con sé stesso, lo conferma nella sua identità, singolare, distinta da quella degli altri, riferimento narcisistico fondamentale. Il bambino viene perciò “strappato” alla solitudine, al senza risorse, alla derelizione del suo corpo come puro reale, caos di bisogni, stimoli organici, sollecitazioni ambientali, a patto però che quello sguardo che lo investe non sia “contemplativo”, silente – questo sarebbe angosciante, perfino mortifero – ma “attivo”, animato cioè da gesti e da una mimica espressiva e soprattutto da parole capaci di trasmettere molto precocemente al bambino il desiderio dell’Altro, un desiderio speciale, cioè non anonimo, totalmente dedito alla sua particolarità sconosciuta e al suo progressivo divenire e svelarsi …nel suo carattere, nei suoi gusti, nelle sue preferenze ecc. introduco una piccola digressione storica che mi aveva molto colpita, quando l’avevo incontrata in una lettura :

Nel XIII secolo Federico II di Germania volle fare un esperimento, prescrivendo “…alle nutrici di dare il latte ai bambini, che succhiassero pure i seni, e di bagnarli e lavarli, ma di non coccolarli e di non parlare loro in nessun modo. Egli voleva infatti sapere se avrebbero parlato la lingua ebraica, che era stata la prima, o il greco o il latino, o l’arabo, o se infine avrebbero parlato la lingua dei genitori da cui erano nati. Ma inutilmente si dava questa pena, perché i bambini presto o tardi morivano tutti. Infatti non potevano vivere senza l’approvazione, il gesto, il sorriso e le lodi delle loro nutrici” Salimbene de Adam, cronica anno 1250

Questo processo – che si tende a dare per scontato il prendere forma umana dell’essere umano – non è naturale, né automatico, né per così dire pacifico : abitare il proprio corpo e poi assumere il proprio sesso sono piuttosto passaggi conflittuali, a volte perfino tormentati, richiedono un certo lavoro psichico, spesso silente e in parte inconscio ; a volte però il dramma viene a cielo aperto, manifestandosi – per esempio – in quelle patologie,    nell’attualità molto frequenti, che evidenziano un perturbamento profondo a livello immaginario. Ne cito una fra tutte, fra le più note ed eclatanti, l’anoressia mentale: in essa si opera e si rivela uno scarto stupefacente tra la condizione del corpo reale – magrissimo, a volte scheletrico – e la percezione, la visione di esso, da parte del soggetto anoressico : in quella visione, alterata, distorta, la magrezza non è mai abbastanza, è ostinatamente misconosciuta e continuamente inseguita. Non voglio adesso sviluppare questo argomento clinico – che non è nel tema di oggi – ma cogliere un aspetto che invece mi sembra poter rientrare nella questione complessa dello sguardo e del guardarsi: il disconoscimento della propria immagine allo specchio non dipende certo da una insufficienza della funzione visiva, da un difetto dell’occhio come apparato preposto ad essa, ma piuttosto da una specie di “accecamento” che concerne lo sguardo : come viene guardato quel corpo per poter essere visto – e di conseguenza trattato – come ancora dimagribile ? Si potrebbe parlare di una malattia a livello dello sguardo….

In modo generale e senza approfondire questioni specifiche della sofferenza psichica, della patologia, possiamo dire che l’atto di guardarsi non è mai neutro, tantomeno “oggettivo” – a dispetto della propensione attuale ad oggettivare tutto e ad illudersi che la cosiddetta “realtà” sia padroneggiabile, prevedibile, quantificabile…L’atto di guardare/guardarsi è sempre filtrato dagli affetti e dalla risonanza delle parole con cui è stata investita – all’origine – la nostra immagine allo specchio. Volutamente uso qui il verbo nella forma impersonale : il campo in cui si gioca la traiettoia dello sguardo, tra l’Io e l’Altro, è un circuito pulsionale, ne dell’uno né dell’altro, è un campo densamente impregnato – e reciprocamente – di tensioni erotiche e aggressive, ossia di amore e di odio. In questo campo, detto narcisistico, si esplica e si manifesta quel tratto tipicamente umano – non reperibile nel resto del mondo animale – che è la passione per la propria immagine, da intendersi nel duplice significato di fascinazione e patimento, gli esempi sarebbero infiniti, clinici e non, e oggi più che mai, basti pensare alla pregnanza che ha la dimensione dell’ immagine nella nostra modernità.

Si potrebbe giungere a dire che una sorta di “fermo immagine” si è impresso, a livello psichico, per ciascuno – virtualmente –in un’epoca remota della sua storia e continua a determinare, soprattutto inconsciamente, il suo modo di sentirsi presente nel mondo e di entrare nella relazione con gli altri, nel legame sociale.

Abbiamo insomma privilegiato, “scelto”di tutta la nostra storia e galleria di ricordi, una certa “fotografia” che ci rappresenta, tra le tante e più di altre, al nostro stesso sguardo e a quello che pensiamo sia lo sguardo dell’Altro “io sono quello che…” “ gli altri mi vedono cosi” ecc. Molto spesso – forse sempre ? – non sapremmo dire perché proprio quella : questo enigma a volte si traduce in una domanda, in un desiderio di poterne sapere un po’ di più, soprattutto se e quando quel punto di “fissazione” diventa troppo ingombrante, vincolante, tanto da inibire altri o nuovi possibili modi di espressione della nostra soggettività.

A volte in analisi – non certo solo lì, ovviamente, e le vie e forme della ricerca artistica lo dimostrano – le persone si accorgono, anche con sconcerto, di quanto certe immagini siano nitide e vive, quasi iper-reali, come ritagliate da un contesto per il resto vago e indeterminato ; in esse ci si rivede in una certa scena, magari lontanissima nel tempo, precedente il linguaggio, ci si vede lì come fissati in un gesto, in un atteggiamento, in una azione, anche insignificante, banale niente di così importante, in fondo …perché proprio quella ? Tuttavia qualcosa ci particolarizza in essa, qualcosa che possiamo cogliere e nominare come un tratto già nostro, tipicamente nostro, un nucleo in cui riconosciamo una nostra identità, tanto intima quanto – in un certo senso – estraniante. Questo effetto paradossale, perturbante, è il segno indelebile del nostro destino di esseri umani : siamo passati attraverso lo sguardo dell’Altro per giungere a guardarci e di questa esperienza, necessariamente alienante, manteniamo l’impronta, il retaggio, la trafittura.

Ipotizzo, è una idea che mi è sorta e mi piace poterne magari discutere : forse c’è anche, in questa “tentazione” verso l’autoscatto, un desiderio di (ri)stabilire una sorta di padronanza sulla propria immagine ?

 

Patrizia Gilli

 

Conferenza presentata a Mestre, al centro culturale Candiani – novembre 2013