A quali condizioni un corpo può dirsi umano
di Francesco Stoppa, Mestre 11.01.2020
Con buona pace di altre sintomatologie oggi più gettonate – attacchi di panico, disturbi bipolari, borderline o del comportamento alimentare – la psicosi può vantare un indubbio primato: illuminarci sulla condizioni di base che decidono dell’umanizzazione dei nostri corpi. E con buona pace della maggior parte dei colleghi lacaniani, per lo più d’oltralpe, che sembrano concedere alla paranoia la palma della psicosi DOC, è in realtà la schizofrenia a fare da apripista per chi intenda interrogare in tutta la sua radicalità la materia umana.
La sofferenza dello schizofrenico, proprio per i danni strutturali di cui patisce gli effetti, ha per antitesi il privilegio di rivelarci per quali vie si realizzi l’umanizzazione del vivente. Il suo indubbio primato, dal momento che ce ne mostra il possibile naufragio, è di mostrarci quali siano le condizioni per cui un corpo arrivi a dirsi umano. Le condizioni, come si esprimeva Anna, la famosa paziente di Blankenburg, che permettono di “diventare uomini innanzitutto umanamente”.
Entro subito nel merito dando la parola a Mirko che, anche se non davo a vederlo, mi faceva sempre un po’ sorridere quando entrava nello studio e, per segnalarmi che qualcosa in lui cominciava a scricchiolare, mi cercava per dirmi “Dottore, oggi mi fa male lo scheletro”. È chiaro che non è come dire “Mi fanno male le ossa”, non si tratta dell’indicazione di un disagio momentaneo, magari attribuibile alle condizioni climatiche: c’è qui in gioco qualcosa di più strutturale, emergenziale, qualcosa, direi, di ‘ultimativo’. L’impressione è che in questi frangenti il paziente avverta l’avvicinarsi di un’insidia indefinibile, capace non tanto di recare danno a una certa parte del corpo quanto di minare la stabilità dell’impalcatura ossea stessa, cioè dell’ultimo baluardo chiamato a garantire la stabilità del corpo quando né l’immagine di sé né l’ordine della parola sembrano più bastare (si tratta delle dimensioni dell’Immaginario e del Simbolico, come si sa alquanto critiche nell’esperienza psicotica).
Qualcosa del genere accade a un paziente di cui vengo a conoscenza nel corso di una supervisione. Si tratta di Matteo, ha circa trent’anni, e vive un periodo di compenso destinato però a interrompersi in seguito a un incidente occorsogli durante una partita di calcio. Riporta una frattura alla clavicola, cosa che non pare avere inizialmente particolari conseguenze finché, dopo un paio di settimane, comincia a lamentare parestesie e forti dolori alla spalla che sul momento gli impediscono semplicemente di giocare ma che danno poi seguito a fenomeni allucinatori accompagnati da forte angoscia e da un’ideazione delirante.
Cosa fa dunque dello scheletro l’ultimo baluardo, il confine estremo, la barriera ultima dell’umano prima del disfacimento, della frammentazione o dell’evaporazione del corpo?
Bisogna ricordare che i danni riscontrabili nella patologie gravi sono riconducibili a un difetto nella ricezione della vita tale da impedire alla persona di rivestire i fenomeni di un senso comune e allo stesso tempo intimo, soggettivo. Non sufficientemente arginata, zavorrata, racchiusa, la vita minaccia di tracimare e travolgere le cortine difensive del soggetto. Al netto dunque degli episodi di vero scompenso, l’esistenza dello psicotico resta comunque segnata da una doppia impasse: un vissuto di irrimediabile isolamento fa il paio con un sentimento di estraneità che colpisce la propria persona e in primis il corpo. È come se in assenza di una camera di decompressione, una sorta di centro d’accoglienza della vita che funga da filtro e da accoglimento della marea di stimolazioni che
giungono da dentro o da fuori, venissero a mancare i presupposti necessari a stabilire un minimo di familiarità con sé e con il mondo.
È probabilmente per questo che lo scheletro, anche per la sua natura parzialmente inorganica, viene a rappresentare una sorta di ispessimento difensivo, una cristallizzazione della materia che permetterebbe di sfuggire al flusso dissipativo della vita. Ma non solo: esso, come anticipato sopra, sembra fungere da rimedio da un lato alla labilità dell’immagine speculare, che nel caso della schizofrenia, è sempre a rischio di frammentazione o di vaporizzazione, e dall’altro dall’insidia proveniente dal linguaggio che non essendo ordinato in un discorso, non riverberando cioè in sé i benefici di un corpo simbolico, non esercita, come dovrebbe, alcuna regolazione pulsionale ma gli si impone in forme invasive, perturbanti, bizzarre.
I danni che si producono nella psicosi ci dicono dunque che l’acquisizione di un corpo nella sua qualità umana è un processo complesso nel quale confluiscono elementi eterogenei – le spinte pulsionali provenienti dal corpo, l’immagine speculare, il campo simbolico e culturale – i quali devono trovare modo di annodarsi tra loro (ovviamente non senza resti o eccedenze). Tuttavia, e questo è il punto decisivo, perché la res extensa di cui siamo fatti possa dichiararsi pienamente umana, è richiesta un’ulteriore e decisiva operazione. Una mossa, stavolta, che spetta al soggetto mettere in atto. Di cosa si tratta?
Paradossale quanto si vuole, ma si tratta ora di far sparire il corpo, di renderlo invisibile, o meglio, come direbbe Shakespeare, “della stessa materia dei sogni”. Per capire come questo sia un passaggio decisivo per l’acquisizione della dimensione umana del corpo, dobbiamo tornare al tempo della nostra infanzia e immaginarci bambini molto piccoli, intorno a un anno di vita, davanti a uno specchio.
Prima di proseguire però vale la pena di sottolineare un fatto, non così scontato: quello che sto qui ricordando, e che potrebbe apparire un esercizio teorico estraneo all’operatività quotidiana, fa invece parte integrante – ne è la sostanza intima – della cura in istituzione e della funzione stessa dell’équipe. Ogni percorso terapeutico rappresenta infatti una rivisitazione di alcuni passaggi fondanti l’identità umana, a partire dalla famosa fase dello specchio teorizzata da Lacan, passaggio decisivo nell’assunzione, appunto, di un corpo umano. Ma di quali qualità deve brillare un corpo umano? Bene, quella che ci viene consegnata in quel momento dello sviluppo – siamo in un’età compresa tra i 6 e i 18 mesi – è un’identità che consente un doppio guadagno, immaginario e simbolico: l’erotizzazione del corpo conseguente allo sguardo e alla voce del genitore permette infatti alla nostra immagine di essere abitata da una cifra di singolarità assoluta ma, allo stesso tempo, di godere della propria appartenenza a una Gestalt che è quella comune a tutti gli umani. Una buona madre non si compiace, in altre parole, solo del tratto di unicità che intravede ed esalta nel suo bambino, ne valorizza allo stesso tempo la natura pienamente umana. Colloca quella presenza all’interno di una certa storia e una certa cultura.
Veronica è un’altra paziente di cui vengo a conoscenza durante una supervisione. Nei momenti di contatto con i propri simili, cosa che agli operatori non sfugge, la fisicità di questa paziente si esprime in modalità piuttosto manierate, come se aderisse a un’idea astratta e meccanica del corpo, di come sarebbe bene che un corpo funzioni, si muova, interagisca. Radicalmente, diametralmente opposta è al contrario l’esperienza che Veronica fa del suo corpo nei momenti di scompenso a carattere agitatorio: quando, ad esempio, per sfuggire l’intervento degli operatori che cercano di contenerla, si mette a correre a quattro zampe ululando – così si esprimono i colleghi – come farebbe un animale ferito. È evidente come in entrambe le situazioni, sebbene in forme
diverse, il soggetto non ritrovi più le coordinate umane della propria corporeità: se nel primo caso non riesce a stabilire un punto di intimità tra sé e il corpo (se si vuole, tra la propria dimensione individuale e quella pubblica), e il suo corpo assomiglia a quello di una marionetta, nel secondo caso la grande assente è la dimensione della parola, ridotta a ululato, l’unica che potrebbe dare uno sviluppo umano a una corporeità altrimenti destinata a regredire a uno stadio meramente istintuale.
Tornando a noi, noi bambini davanti allo specchio, c’è da augurarsi di essere condotti fin lì da qualcuno che, oltre a mostrarsi affascinato e incuriosito dalla nostra immagine – quindi né turbato né indifferente alla cosa – non l’ha però inglobata nel suo sguardo e non l’ha perciò sospesa in una sorta di bolla fuori tempo; al contrario, le ha immediatamente assegnato un nome e, dentro di sé, l’ha immessa in una storia. Gli occhi della madre – scrive Winnicott riferendosi al testo di Lacan sullo stadio dello specchio – sono il primo specchio del bambino, ma lo sguardo della madre deve essere non qualcosa da guardare ma qualcosa in cui guardare, una sorta di ponte che lascia scorgere un al di là, un mondo. Ce ne sarebbe già qui abbastanza per discutere della funzione di limen dell’istituzione, dove limen non va inteso solo come limite ma soprattutto come soglia, apertura, appunto, in direzione del mondo.
Questo significa che il corpo istituzionale dovrebbe rispettare la topologia freudiana del corpo pulsionale, che è un corpo che non si sostiene autarchicamente chiuso in se stesso, pena la sua implosione, ma che necessita di precisi e ben visibili sbocchi che lo connettano con un esterno. La cosa cruciale però è un’altra, e cioè che, nell’attraversamento di queste soglie, lungo questi bordi (le zone erogene), il corpo trovi modo di localizzare e condensare l’esperienza del piacere. Se pensiamo ad esempio ai principi cardine di una riabilitazione intelligente, bisogna allora dire che il miglioramento sintomatico del paziente, e nella fattispecie il suo reinserimento sociale, dovrebbero accompagnarsi a una erotizzazione del campo di realtà, a un reinvestimento libidico degli scambi con i propri simili, gli oggetti e il mondo. È stato infatti questo tipo di investimento erotico sulla realtà, è stata l’allusione materna a un altrove della sua relazione col figlio, a permettere al nostro corpo di superare il suo primitivo stato fusionale, sempre a rischio di disorganizzazione e frammentazione, consentendogli di reperire un principio autonomo di unità spaziale e temporale. È una conferma di come il corpo biologico si ritrovi ad essere da subito compreso in un corpo sociale, e sarà a un più ampio orizzonte di senso – di norme, usi e abitudini – che farà di lì a poco riferimento.
Ma come anticipato, tutto questo è sufficiente ai fini dell’umanizzazione del corpo?
La psicosi ci dice che non basta. Per quanto le sue dispercezioni proprio ed eterocettive risentano dei danni prodottisi a livello di tutti i tre i registri in gioco, reale (disordine sul piano pulsionale), immaginario (difetto nella specularizzazione del corpo) e simbolico (solidificazione del linguaggio a discapito della dimensione più soggettiva della parola), esiste pur sempre un passo che sta poi al soggetto compiere. Un passo che, nella fattispecie, va nella direzione di avvolgere e custodire la propria corporeità in una sorta di nascondimento.
Custodire è un verbo la cui etimologia rimanda tra l’altro a ‘nascondere’, e l’atto con cui il bambino fa proprio il suo corpo (quel corpo di cui avverte la natura vivente, che ha visto sorgere nella cornice dello specchio, che riceve dalla sua specifica cultura di appartenenza un certo senso sociale e una serie di regole) coincide sostanzialmente con un gioco di prestigio grazie al quale, dopo che si è trovato a esistere nel registro del visibile, lo si rende invisibile. Per l’esattezza, il suo corpo
assume un certo prestigio quando, paradossalmente, egli riesce a farlo proprio trasformandolo in un oggetto irreperibile; quando lo fodera in un’assenza.
La notte della sua prima crisi, Angela sfugge dalle mani degli operatori del reparto dove è stata ricoverata e corre a chiudersi in bagno. Durante un colloquio, più in là nel tempo, mi racconterà di come si erano svolti i fatti: dopo aver aperto i rubinetti dell’acqua e spenta la luce, si era rannicchiata a occhi chiusi sotto il lavandino, sotto lo specchio quindi.
C’è da dire che nelle fasi stuporose immediatamente precedenti al ricovero – come precisa – lo specchio le rimandava “un’immagine linda e senza movimento” e tutto ciò che la circondava pareva imporsi al suo sguardo con una certezza abbagliante, senza sfumature o zone d’ombra. Lei stessa si sentiva capace di “una chiaroveggenza abbagliante” che aveva tuttavia sulla sua persona un effetto di incantamento simile a una cristallizzazione.
Cosa fa allora Angela, chiusasi in quel guscio buio che per lei è divenuto il bagno del Servizio di Diagnosi e Cura, raggomitolata in se stessa, sottratta allo sguardo del mondo? Cerca una ricomposizione della dimensione più intima, potremmo dire ‘pre-speculare’, della sua corporeità. Come se la ritessitura del narcisismo che Freud chiama “primario” si giocasse ora per lei nel nascondimento di sé a cui concorrono la penombra e lo scorrere dell’acqua, quel flusso sonoro che evoca la continuità della pulsione e che comunque ha il compito di coprire i suoni e soprattutto le voci provenienti da dentro e da fuori.
Come si vede, non si tratta semplicemente della descrizione di un tracollo soggettivo: in realtà inizia qui la storia clinica della paziente – che ha già in sé la dignità di una storia – ed è istruttivo il fatto che prenda avvio con un atto che solo in apparenza è di rifiuto delle cure. A ben vedere, il suo bisogno di tuffarsi in una penombra, di celarsi perfino a se stessa prima di affidarsi all’istituzione, segna una svolta nella sua modalità di abitare la realtà. In precedenza, infatti, abbiamo visto come la paziente consegnasse il mistero della sua identità alla trasparenza alienante e priva di sfumature di un’immagine di sé talmente idealizzata da rivelarsi paralizzante. Ora, prima di entrare in scena
– e il nuovo scenario è l’istituzione –, avverte invece la necessità di un’operazione di preliminare e momentanea cancellazione di quell’immagine. Quasi che questo ritrovamento di sé come assenza, questo black out spazio-temporale, venisse a materializzare un punto altro, diverso dal consueto, d’irradiazione della sua identità e del mistero che le è proprio. Una sorta di messa in sicurezza della sua umanità davanti alle vicissitudini a cui la realtà non avrebbe mancato di esporla.
Il gioco del bambino è qualcosa del genere. È quello col quale, una volta solo in prossimità dello specchio, quindi non visto dall’adulto, accucciandosi a terra o scostandosi dalla superficie riflettente, si prende il lusso di far sparire e riapparire la sua immagine; un gesto che, chiaramente, al di là di consentirgli un certo padroneggiamento dell’immagine sottratta in questo modo al potere dello sguardo e della parola del genitore, fa in realtà compiere al bambino un passo ben più decisivo e di cui solo più tardi coglierà l’intrinseca drammaticità, il significato luttuoso che inevitabilmente porta con sé. Tuttavia, nel momento in cui sfugge alla sua immagine, nel momento cioè in cui pone la sua presenza a diretto contatto con il prodursi di un’assenza – come se la immergesse in un bagno di vuoto -, egli fa del suo corpo un oggetto sui generis, inesistente in natura così come nel campo di realtà eppure capace di una sua presenza, un oggetto assemblato con una materia speciale, altamente umana, il vuoto. E così ora il reale più autentico, la qualità intima del corpo in quanto umano, risiede in questa sua virtualità: poterci non essere. Come se la cifra dell’umano corrispondesse alla possibilità di mancare a se stesso; una possibilità, va tuttavia specificato, non subìta ma agita.
In concomitanza o prima ancora dell’acquisizione della parola, il bambino apre dunque a se stesso la via dello psichico facendo della sua stessa forma, della sua immagine, un oggetto che si assenta e che diviene recuperabile lungo le vie dell’astrazione e del pensiero. C’è qui una singolare sinergia di eros e thanatos che è abbastanza facile cogliere, ad esempio, in quella speciale palpitazione emotiva che lo coglie quando gioca a nascondersi da qualche parte per farsi cercare dal genitore. Divenire questa presenza assente – il fatto di poter mancare all’Altro, cosa già vertiginosa perché ridimensiona l’onnipotenza di quest’ultimo – procura sempre una certa ebbrezza. A ciò si associa la trepidazione di chi è sul punto di rientrare in scena non senza provocare – almeno si spera – la sorpresa, lo spiazzamento dell’Altro: il brivido di sostare su questo crinale tra essere e non essere, sparire e riapparire, ripropone infatti al bambino l’insolubile enigma di cosa egli sia per l’Altro.
Per inciso, potremmo qui porci una bella questione: quanto è decisivo, nell’instaurarsi e nell’evoluzione del transfert con uno psicotico, lo spiazzamento di noi operatori? Il fatto, cioè, che egli possa intuire la presenza in noi di un sentimento di sorpresa all’apparire o anche solo al timido accenno della natura inconoscibile del suo essere. Il palesarsi di qualcosa che sospende e oltrepassa i nostri saperi e le nostre tecniche.
A conclusione di questa digressione su alcuni passaggi cruciali che segnano l’umanizzazione del corpo, culminata con la constatazione di come la prerogativa del corpo umano non sia solo quella di lasciare tracce del suo passaggio, ma, come dice Lacan, anche di cancellare queste tracce per darsi una consistenza del tutto speciale (sottratta al potere dell’istinto, delle parole e dell’immagine), va sottolineato come tutto ciò che rientra nel concetto di cura, e in particolare di cura in istituzione non faccia che riproporre e ripercorrere questi passaggi decisivi per l’umanizzazione della persona. Quando ci occupiamo di riabilitazione, quando prescriviamo un farmaco o ricoveriamo il nostro paziente, quando cerchiamo di favorire in lui l’acquisizione di un certo ruolo sociale, noi lavoriamo sempre, in fondo, a livello dei registri reale, immaginario e simbolico dell’esperienza umana: per aiutarlo a dare un orientamento al suo campo pulsionale, per consentirgli l’accesso a un’immagine di sé rassicurante e sufficientemente strutturante, perché egli possa ritrovarsi in un tempo, una storia, un contesto sociale; perché, in sostanza, non gli resti solo il ricorso a quell’ultimo baluardo che è lo scheletro e le sue difese non siano ridotte letteralmente all’osso, perché possa contare sulle variegate risorse di un campo umano a lui finalmente accessibile col quale possa venire a patti e costruire un rapporto fiduciario.
Di certo però – e su questo ritorneremo a breve – va tenuta presente quell’esigenza fondamentale di racchiudere e custodire il senso della propria umanità in un altrove. Questa dovrebbe essere la prima funzione dell’istituzione, garantire al paziente tempi e spazi che non siano già saturi, congestionati da aspettative e risposte preordinate. Già di suo, infatti, lo psicotico è un soggetto drammaticamente esposto alle radiazioni della vita, a sguardi e suoni che non gli danno tregua, a pensieri che gli si impongono e da cui si sente martirizzato. Il dramma della psicosi, sosteneva Jean Oury, è riscontrabile in quella che definiva una “agenesia della dimenticanza”, qualcosa che impedisce al soggetto di dimenticare, rimuovere; che gli impedisce di alleggerire il peso della vita reale ma anche di quella psichica (“le parole trattate come cose”, diceva Freud), perfino della propria stessa presenza nel mondo. Nel caso dello psicotico, non poter pensare il proprio venir meno, assentarsi, non poter simbolicamente simulare in vita le condizioni della propria morte – e di conseguenza non trarre vantaggio dall’umorismo –, tutto ciò rappresenta una vera condanna. Come dire, esistere in eterno portandosi addosso l’eternità del proprio dolore di esistere.
Riccardo mi spiega che il suo corpo gli sembra fatto della stessa materia di quello di un certo supereroe, nel caso specifico di una lega metallica, ovviamente immaginaria, che ha la caratteristica di essere indistruttibile e che si chiama adamantio. Il dramma è che questa sorta di esoscheletro ha, per il personaggio in questione e per lui stesso, una duplice e dolorosa controindicazione: è ipersensibile e patisce di conseguenza nel vivo e in termini esacerbanti le bordate della vita senza che questo comporti mai la morte della persona. Si tratta di una condizione di immortalità degna dei dannati dell’Inferno dantesco, in altre parole Riccardo mi dice di soffrire di dolori laceranti – il primo dei quali è legato alla certezza che il suo corpo sia un buco nero – nella consapevolezza che non avranno mai fine.
Ad un reale così esposto agli insulti del mondo corrisponde tuttavia, nel vissuto dei suoi familiari, un’immagine di Riccardo e del suo corpo del tutto paradossale. La madre, che non sa darsi ragione dello stato melanconico del figlio, ci tiene a farmi sapere quanto sia stato amato e coccolato quel bambino la cui pelle, ricorda con trasporto, emanava un profumo per lei indimenticabile; quanto tutti in famiglia – anche il padre e il fratello più grande – gli fossero e gli siano ancora spesso addosso per abbracciarlo, tenerselo vicino, quasi fosse il giocattolone, il peluche di casa. E come se non bastasse, a conferma della cosa pensa bene di inviarmi via whatsApp un paio di foto dei due ragazzi, sostanzialmente identiche per quanto riguarda la postura di Riccardo. I due sono seduti e in entrambe gli scatti il paziente appare avvinghiato, da dietro, al corpo del fratello con la testa posata sulla spalla di quest’ultimo. L’impressione è quella di un pupazzo dallo sguardo assente che collassa su stesso e si riversa sul corpo di una persona in carne ed ossa e dallo sguardo vigile.
Quando cerco di convincere Riccardo a parlare del suo dolore al padre – che ben poco ne sa e ne vuol sapere -, mi risponde che non può farlo soffrire. E quando gli dico che sarebbe un buon modo per iniziare a prendersi entrambi sul serio facendogli ad esempio sapere che il figlio ora ha un corpo d’uomo che nel suo dolore di esistere esprime finalmente dei segni di vita, che avverte quanto la vita sia faticosa e ingrata, mi scrive: “No, guardi, non mi interessa far sapere a nessuno come sto. Quel che è fatto è fatto. Purtroppo è andata così”.
Vediamo di riassumere. Quello che Lacan, a proposito delle cause della psicosi, evoca come “un danno nella giuntura più intima del sentimento della vita” è un difetto nell’annodamento dei tre registri dell’immagine del corpo, della parola e della pulsione (Immaginario, Simbolico e Reale). Ora, cos’è nel caso in questione un annodamento? Personificando questi tre elementi costitutivi del campo umano, potremmo pensarlo alla stregua di un patto nel quale ognuno di essi mostra di non bastare a se stesso e allo stesso modo pone un limite al potere degli altri due. Nella psicosi accade che la particolare inconsistenza di uno dei registri lasci il soggetto in balia degli altri due, ciascuno dei quali, sciolto da qualsivoglia legame reciproco, si produce in una sorta di elefantiasi o di deformazione di se stesso.
La cosa è particolarmente evidente nella schizofrenia. Per capirlo torniamo a quanto dice Winnicott a proposito del viso e in particolare degli occhi della madre. C’è apertura ad un altrove, soglia, passaggio? “Tua madre – si chiedono ad esempio Deleuze e Guattari – è un viso o un paesaggio?”. Nella psicosi la scena nella quale il bambino, i suoi oggetti e la realtà dovrebbero trovare posto è una sorta di fermo immagine, tutto si arresta in una sorta di al di qua. È un po’ come per i dannati di Dante il cui peggior supplizio è la mancata visione dell’Altro, in quel caso di Dio, di un punto di fuga, comunque, che trascenda la bruta e insensata immediatezza dell’esperienza. Nella fattispecie, ciò che lo schizofrenico non ritrova, che il volto della madre non gli rimanda, è un paesaggio nel quale trovi posto qualcosa che dovrebbe essergli proprio, la sua immagine umana inserita in una
realtà altrettanto umana. Cercandosi nello specchio incontra un vuoto oppure un’immagine scomposta e frammentata o, ancora, una parvenza d’essere che somiglia a una marionetta eterodiretta, ma il soggetto resta in ogni caso preda di un vissuto dismorfofobico che fa ostacolo all’assunzione di un’identità sufficientemente heimliche, familiare. Manca una cornice e mancano dei contorni riconoscibili che differenzino e mettano in relazione reciproca le cose del mondo.
Anna spiegava a Blankenburg che non le era possibile avvertire “quei limiti sottili” che, una volta operativi, avrebbero permesso al suo corpo di farsi spazio, individuare le giuste posture, sapersi intrattenere con gli oggetti (“è come se tutto mi cadesse di mano”) e guadagnarsi una certa agibilità del reale. Ma a proposito di limiti, come non pensare all’Infinito, quello di Leopardi? Esiste infatti per lui una condizione preliminare che gli permetterà, alla fine del canto, di scoprire la dolcezza di perdersi nel mare dell’illimitato. Si tratta di qualcosa a cui fin dalle prime parole sente di dover esprimere gratitudine, e cioè la presenza di barriere: il colle solitario, la siepe.
Qual è il loro valore primo, un valore che Freud stesso riconosce al nostro apparato psichico in quanto fatto di “barriere e facilitazioni”? Di escludere qualcosa alla vista – come si vede, un’opera di nascondimento – e cioè, per Leopardi che non sa che qui sta parlando nientemeno che della funzione dello sguardo come oggetto causa di desiderio, “l’ultimo orizzonte”. Forse per Leopardi si trattava della morte, della fine di tutto, mentre per uno psicotico il problema non è certo questo, non è il limite, ma la sua assenza.
“Il mio problema – mi confessava un paziente – è di sapere ciò che c’è oltre all’universo. Dove si ferma?»: c’è un incomprimibile sgomento alla base di questa domanda al cui orizzonte fa capolino l’insistenza di un godimento che non sembra conoscere soste o essere in qualche modo mitigabile: il godimento dell’Altro, certo, ma anche di quell’unheimlich che è il corpo in preda a una pulsionalità senza approdi, non localizzabile. Non c’è di conseguenza alcuna esperienza del piacere se il soggetto si trova esposto ad un infinito senza barriere, in bilico sul baratro di un orizzonte la cui vastità informe non sia spezzata dai contorni di una siepe o di un colle. Perché un naufragio possa dirsi “dolce”, come testimonia alla fine Leopardi, bisogna che quel naufrago della vita che è l’uomo abbia modo di trovare anche dei porti, di aggiungere alle derive degli approdi possibili.
Sempre a rischio di esondazioni di godimento, nella schizofrenia il corpo non trova la stabilità di un proprio disegno, il suo punto di unità fuori di sé, nello specchio. Il fatto è che la madre non ne ha erotizzato a dovere i bordi, le aree di confine, le aperture; come dimostrano certi eczemi o certe gravi psoriasi, non si è da subito prodotta una sufficiente erotizzazione del rivestimento cutaneo del corpo del bambino; perché questo fanno le carezze materne, tracciano delle linee di demarcazione. Ancora prima della fase dello specchio, la mano della madre disegna i contorni esterni di un interno che non le apparterrà più, a cui consentirà di chiudersi e raccogliersi, celarsi. Ma andando ulteriormente a ritroso, ecco che la gestazione stessa ci appare un’opera di nascondimento grazie alla quale la madre custodisce la natura umana del nuovo venuto permettendogli un arrivo protetto e graduale, non istantaneo: una sorta di paracadute che addolcisce – per restare a Leopardi – la caduta nel mondo, perché, come avviene invece per lo schizofrenico, non abbia a prodursi come un evento rovinoso.
Questa mancanza di gestazione fa sì che per lo psicotico l’origine venga percepita come l’effetto di un’eruzione di godimento, in questo caso il godimento paterno. “Sai cosa sono? – mi diceva con rassegnata certezza Giuseppe – Uno spermatozoo”. Se al principio di tutto, nella nostra tradizione culturale, c’è il Verbo, cioè una parola che garantisce l’incarnazione del figlio, nel caso della psicosi la parola del padre non comporta alcuna cessione ad altri del proprio potere, ragione per cui l’incarnazione del figlio è pensabile solo come emanazione diretta, senza soluzione di continuità,
della potenza generativa del genitore, la cui legge stessa resta espressione del suo godimento autistico.
Non a caso nella sconsolata, impotente testimonianza di molti pazienti non si ritrova mai il segno di una reale trasmissione, del passaggio di una certa abilità, di una certa tecnica o passione da padre a figlio. Il genitore rimane il geloso proprietario di tutto ciò che in lui ha trovato espressione; una specie di artigiano autarchico, l’ingenerato creatore non solo del mondo ma del figlio stesso. Il padre è al punto d’origine delle cose, senza una genealogia che lo preceda, così che la fondazione del soggetto stesso non può giovarsi di alcun mito o romanzo familiare, fa capo al reale della maestria paterna. Maestria che non concepisce un prima e non prevede un dopo di sé. È per questo, per porre rimedio a tale creazione senza gestazione, che Schreber si fa la donna di Dio, a cui deve in sostanza trovare un partner che lo distolga dal suo godimento solipsistico: per salvare l’umanità e perché il suo corpo non resti quello di un “cadavere lebbroso”.
Potremmo da qui intravedere un analogo difetto vuoi nella paranoia vuoi nella melanconia. Nel primo caso, a differenza della schizofrenia, il bambino vede fin troppo chiaramente la propria immagine negli occhi materni, ma la cosa si cristallizza lì: non c’è un oltre al di là di quello sguardo, un mondo, degli altri che non siano estensioni idealizzate di sé, rivali bidimensionali o ricettacoli viventi di un godimento maligno. Il soggetto è vittima di un’idealizzazione algida e mortifera della propria immagine, una sorta di incantesimo che lo imprigiona tra le pareti di vetro del suo Io.
Il soggetto pensa se stesso come un corpo del tutto speciale, dotato di una mente altrettanto superiore, ma l’aspetto drammatico della sua esistenza è legato all’impossibilità di alleggerirsi del peso di un destino d’elezione che di certo non ha scelto in prima persona, cosa che avrebbe potuto permettergli di realizzare il secondo e decisivo passo della propria umanizzazione: godere della vicinanza coi propri simili, ritrovare nel proprio corpo e nell’esperienza della parola i segni dell’appartenenza a un’umanità condivisa, comune.
Se la paranoia non conosce il conforto del patto e dello scambio simbolico, nella melanconia, così come nella mania, la dimensione deficitaria è quella del reale. Il corpo vivente del soggetto resta un corpo da uccidere o da stremare, umiliare. Una certa clinica dell’adolescenza ce ne mostra gli effetti: c’è qualcosa di indigeribile, da parte dell’altro genitoriale, in quel corpo che si trasforma, cresce, tradisce i suoi tratti infantili. È il caso di Riccardo, che è costretto a stagnare in un corpo svuotato della sua capacità trasformativa, un corpo cioè la cui natura vivente ha per l’Altro dell’impensabile. Ma a volte è possibile reperire l’orrore della vita che abita nel figlio già prima, nell’infanzia: un corpo, come quello di Andrea, percepito come fin troppo esposto alla sua natura vivente.
Un giorno la madre mi confessa di come, fin da quando il figlio era piccolo, le fosse impossibile carezzarlo. La fantasia che la coglieva era che da quel corpo dovessero spuntare degli aculei. Riuscirà ad accarezzare il figlio – “Sa, in quel momento gli aculei erano spariti” – solo quando lo troverà morto suicida nel garage di casa. Come scrive Christopher Bollas, questi genitori non odiano certo i loro figli, odiano piuttosto la vita che pulsa nei loro figli. Questo significa che il corpo di questi ultimi è pensato come un involucro che non deve crescere e trasformarsi, cioè non deve appartenere alla vita; un corpo catturato nell’immaginario del genitore, un immaginario evidentemente attraversato da un lutto inelaborabile. Per questo resta un’ombra, una presenza invisibile, nello specchio, come quella dei vampiri, comunque un oggetto senza qualità e senza un valore proprio; non di rado un corpo putrefatto, in decomposizione, indegno di dirsi umano.
E che dire infine qui del simbolico, del padre? Basta un richiamo a Kafka, alla sua Lettera al padre, là dove, evocando l’immagine del corpo del genitore, lo scrittore praghese ricorda come lo avesse sempre pensato di proporzioni gigantesche: immaginandolo disteso sulla carta geografica del mondo, gli appariva una presenza talmente espansa da occupare per sé tutto lo spazio a disposizione.
Solo una brevissima notazione finale. Dobbiamo essere coscienti, come detto, che il lavoro in istituzione, nelle sue varie articolazioni, rappresenta per il paziente un possibile riattraversamento della fase dello specchio, una sua riedizione critica a aggiornata, in altre parole un rilancio dell’identità umana del soggetto. L’istituzione, quindi, è un campo discorsivo capace di offrire un approdo, un punto di resistenza al disfacimento delle coordinate esistenziali del soggetto. Noi lavoriamo sul piano simbolico, immaginario e reale e, soprattutto, noi offriamo non certo la guarigione ma la possibilità di un patto, di un’alleanza. La possibilità di un nuovo annodamento.
L’istituzione funziona però inizialmente un po’ come uno scheletro, un baluardo che, nel momento in cui il mondo sembra essere arrivato alla fine, si offre come un’occasione, nello specifico uno spazio sufficientemente rassicurante, se si vuole anche sufficientemente anonimo e incolore, ‘inorganico’ potremmo dire, dove non devono esserci particolari aspettative che premono e gravano sul paziente.
Non ci si riflette abbastanza, ma in non pochi casi il nostro intervento dà buoni esiti perché nella sua fase iniziale i luoghi della cura hanno saputo declinarsi come tempi e spazi capaci di interrompere l’eccesso di esposizione al mondo del paziente. In altre parole, gli hanno permesso, forse per la prima volta, di giocare a nascondino con la realtà. Lo abbiamo visto, il bambino stesso cerca di custodire la sua cifra umana non tanto o non solo nel linguaggio o nell’immagine o nelle emozioni, quanto e soprattutto nella possibilità di nascondimento di sé.
Niente tuttavia di meno semplice, oggi, che garantire tutto questo al nostro paziente, nonostante la grande e inattuale funzione dell’équipe sia proprio questa: essere la garante del posto del silenzio nell’istituzione, lavorare affinché essa non si riduca a essere un efficiente dispenser di prestazioni preconfezionate e standardizzate, ma perché non basti mai a se stessa. Perché sappia esercitare una funzione di limite ma anche di soglia.