Per la lezione di oggi, mi è stato chiesto di provare a dirvi qualcosa del transfert nel lavoro con bambini. La mia esperienza con i bambini non è in realtà molta; si limita infatti al lavoro in gruppi di psicodramma che ho svolto in studio con Irene Baruzzo per circa tre anni e ad altre brevi esperienze di lavoro a termine, che ho svolto o sto svolgendo in piccoli contesti istituzionali. Per me è ed è stata però, davvero significativa: ne traggo sempre qualcosa di nuovo, che mi è utile anche nel lavoro con gli adulti.
Per un verso la proposta della dott.ssa Gilli mi ha quindi spiazzato, non pensando di poter avere granché da dirvi, ma dall’altro mi ha anche subito messo al lavoro, facendo emergere brani di letture fatte nel lavoro di cartel o del testo di Colette Soler che stiamo traducendo, e aprendomi alla possibilità di leggere o rileggere alcuni brani di Lacan. Ho quindi accettato e proverò lo stesso a dirvi qualcosa del transfert nel lavoro con i bambini a partire da quella che è la mia esperienza, con la speranza che possa arrivarvi comunque qualcosa e scusandomi fin da subito, per l’inevitabile parzialità di quello che dirò.
Fare questo lavoro per la giornata di oggi è stato in ogni caso per me molto utile, mi ha dato l’occasione di provare a tradurre in parole quello che ho tratto da una pratica con i bambini che è un campo di lavoro per la verità piuttosto vario, sfaccettato, sorprendente (a tratti anche divertente), ma di cui proprio per questo è forse importante cercare di reperirne la logica. Sono, perciò, veramente grata dell’occasione che mi offrite nell’esser qui ad ascoltare, e a chi mi ha proposto il tema: chiedere di parlare del transfert nel lavoro con i bambini, comporta senza dubbio uno sforzo in più che esser richiesti di dirne qualcosa in generale, ma è proprio questo sforzo che mi si è rivelato via via come davvero importante. Partirò quindi dall’esperienza e da alcuni testi, nello specifico il sem. VIII di Lacan, il caso del piccolo Hans di Freud e il libro di Martine Menes Un trauma benefico: “la nevrosi infantile”. Ho diviso il mio intervento in 5 piccole scansioni, che ho chiamato: Un frammento di lavoro: ascoltare… anche intervenendo; Transfert: il semplice accogliere la parola del bambino è un atto non senza conseguenze…; Transfert e domanda; Nel transfert qualcosa sia attualizza; Transfert di transfert: i genitori e il lavoro del bambino.
Mi pare importante iniziare però con una questione, la stessa che mi sono trovata a pormi nel cominciare a scrivere questo piccolo intervento: c’è una diversità nel lavorare con i bambini? Se sì, quale o quali? Devo dire che nel pormi questa questione, mi si è subito presentata alla in mente una prima differenza, ma -a sorpresa- in me stessa, più che nelle produzioni ed elaborazioni dei bambini. Lavorare con loro ha significato per me, infatti, il mettere in campo una certa disponibilità ad essere creativa, ad inventarmi qualcosa ed anche a lasciarmi sorprendere: ad affidarmi cioè ancor di più alla risorsa dell’inconscio. Quello che ho sperimentato è però anche che a questo emergere di modalità nuove (magari mai sperimentate prima o che vengono in mente per la prima volta rispetto a quel bambino o a quella seduta), non corrisponde un allentamento della posizione da cui li si ascolta, ma semmai (mi verrebbe da dire adesso e in après-coup) vi corrisponde un rigore rinnovato di quella posizione, forse anche più esigente di quello che si tiene con gli adulti. Ho pensato che forse questo è uno dei motivi per cui lavorare con i bambini è stato per me così utile in generale: mi ha “costretto” infatti da un lato ad affidarmi a ciò che mi veniva in mente e dall’altro a lavorarci e a confrontarmi molto di più, per cercar di rilevarne la logica. Questo è avvenuto senz’altro principalmente con i colleghi coi quali ho lavorato e lavoro, è continuato nelle occasioni in cui ho scritto qualcosa o partecipato a qualche giornata di lavoro e sta proseguendo in un lavoro di cartel, quantomai utile ed ricco, giacché diversamente (cioè da sola) sarebbe stato ben difficile pensare di avventurarmi in certe letture e soprattutto di ricavarne qualcosa. Lavorare con i bambini, mi è ha messo cioè molto lavoro, non senza difficoltà ovviamente e anzi, forse proprio per questo.
In questo percorso, ho trovato per ora particolarmente significativo il libro di Martine Menes. L’impegno dell’autrice nel cercare di tradurre in termini teorici la clinica dei bambini e nel rilevarvi elementi di struttura diagnostica e direzione della cura, mi sta aiutando a riflettere sul lavoro già fatto e a sostenere quello presente. Molto di quello che riuscirò a dire viene da quella lettura e dalla riflessione che ne sta nascendo.
Credo che anche la per la giornata di oggi potrebbe in effetti aver senso riferirci ad un punto, davvero iniziale, proprio di questo libro, che però mi pare importante. Lo scopo dichiarato del testo è, in verità, piuttosto ampio: si tratta di reperire in che modo nell’attualità della pratica con i bambini sia possibile orientarsi ancora oggi a partire dalla psicoanalisi, a partire cioè da come e se il complesso di castrazione sia ancora operante. Un proposito certamente ambizioso e importante, che Martine Menes affronta a partire da quella che è la sua pratica, dandone innanzitutto le coordinate: lo fa in maniera stringata, strettamente logica, per cui anche estremamente efficace, ma niente affatto semplice… almeno per me. Ella inizia chiarendo un punto, da cui seguirà il resto: qualora incontri un analista, un bambino è un soggetto a tutti gli effetti ed è pertanto un soggetto potenzialmente analizzante a tutti gli effetti, in grado di portare una propria domanda, di poterci lavorare analiticamente e dunque a partire dal transfert.
Non è poco iniziare così un testo sul lavoro con i bambini, e non è poco -mi pare- neanche per l’occasione di oggi: si tratta in effetti di una presa di posizione chiara, rispetto a tutte quelle pratiche analitiche o terapeutiche in cui il bambino non viene visto come un soggetto a pieno titolo, ma come soggetto parziale o soggetto che ancora non è, ma che sarà. Non si tratta qui di misconoscere che i bambini siano diversi dagli adulti, mi pare piuttosto un invito a cogliere questa diversità come differenza solo nei modi in cui domanda, transfert, produzione di un sapere, possano emergere coi bambini: non come una differenza nella logica di quanto emerge quindi, e neanche di posizione dello psicoanalista o di direzione della cura. È una presa di posizione quella di Menes che mi pare, prima di tutto, etica: se non riteniamo un bambino un soggetto a pieno titolo (à part entière dice Menes), sulla base di cosa accettiamo in effetti di riceverlo ed ascoltarlo? Dire che oggi parliamo del transfert con i bambini, vuol in fondo dire anche che li consideriamo dei soggetti… a pieno titolo.
Nel lavoro con bambini si tratta insomma di aver a che fare sì con delle differenze, ma che non costituiscono uno stravolgimento del lavoro, dei dispositivi, o della posizione di chi li riceve. C’è una diversità, ma si potrebbe anche pensare che non è poi di un ordine così diverso da quella che si incontra in altri occasioni, o forse -ancora meglio, che non è di un ordine poi così diverso da quella che si incontra in ogni singola cura. È in effetti lo stesso Freud, ancor prima di Lacan, a invitarci ad accostarci ad ogni singolo caso sospendendo per il momento ciò che sappiamo, a non affrettarci a capire, a non aggrapparci alla teoria o ad una presunta tecnica, per disporci invece ad ascoltare. Lo dice proprio rispetto al caso di un bambino, il piccolo Hans: “Non è nostro compito ‘capire’ subito un caso […]. Per il momento lasceremo in sospeso il nostro giudizio e ci limiteremo a osservare con la massima attenzione tutti gli elementi che potremo raccogliere” (pag, 494, Opere 5); e ancora nell’Uomo dei lupi “Per quanto riguarda il medico dirò soltanto che se vuole imparare qualcosa o raggiungere qualche risultato deve comportarsi, di fronte a un caso del genere, con la stessa ‘atemporalità’ dell’inconscio” (pag.490, Opere 7).
La differenza che ho incontrato nel lavoro con i bambini non è in effetti una differenza di “tecnica”, se si intende per “tecnica” una sorta di armamentario di pratiche già date e che sarebbero diverse di per sé, ma una diversità in come è possibile partire e lavorare, poiché i bambini si raccontano e portano delle cose su loro stessi in modo diverso dagli adulti. Con un bambino si può infatti partire dal disegno, dal gioco, da un racconto o da quello che desidera dire: è da decidere, è da valutare. La differenza rispetto agli adulti è in effetti nel fatto che non si esclude di giocare, disegnare, o leggere qualcosa, e che anzi talvolta lo si propone e ci si attrezza per poterlo fare, lasciando però anche aperta la possibilità di non usare niente di tutto ciò se il bambino ha voglia invece dire qualcosa fin da subito… Si tratta cioè di trovare un modo per poter lavorare analiticamente con un bambino, e non è affatto lo stesso con tutti. Facile in un certo senso a dirsi, non sempre altrettanto a farsi, dal momento che la modalità può appunto variare molto, anche moltissimo tra bambino e bambino, e la difficoltà di cui si tratta, per noi, è quella di non perdere l’orientamento in questa varietà.
Per completare però il quadro entro cui ci muoviamo, è bene forse ricordare una cosa fin da subito. Vi è una differenza importante che, nel nostro lavoro di cartel , abbiamo rilevato a partire dal testo della Menes: si situa nel punto in cui si può concludere un trattamento con un bambino. Citandola: “Vi è tuttavia una particolarità che concerne la fine dell’analisi: se annuncia un divenire nell’analisi di un adulto (ivi compreso divenire analista), innesca piuttosto un seguito logico di installazione strutturale in quella di un bambino”. È questo un punto di diversità proprio nella direzione della cura, giacché mentre per l’adulto si tratta di lavorare con una struttura che si è già installata, con i bambini si è invece alle prese con la creazione della struttura in tempo reale, rispetto alla quale il soggetto può trovarsi in difficoltà nella costruzione e dissoluzione della nevrosi infantile, o con una nevrosi del bambino già strutturata, o ancora nella difficoltà che pone l’impossibilità di installarsi della nevrosi infantile. È questo un punto che mi limito ad indicare, non avendo sufficiente esperienza, ma mi pareva importante ciononostante darvi queste coordinate, fosse solo per dire che si tratta di un limite di quello che andrò a dire e trattare.
Un frammento di lavoro: ascoltare… anche intervenendo
Chiarite queste coordinate del lavoro, ho pensato di cominciare con un frammento, un po’ nel rispetto della richiesta che mi è stata fatta, quella cioè di dare al mio intervento un taglio di esercitazione, un po’ perché penso che specialmente riguardo ai bambini abbia senso partire da un materiale che faccia entrare nel “vivo” del lavoro, che faccia cioè percepire in che modo è diverso e in che modo è contemporaneamente possibile reperirvi comunque una logica. Ho scelto un frammento di una piccola esperienza di gruppo in un patronato, di cui -chi era presente- ha sentito parlare da Michela Sivieri nella giornata sullo psicodramma di settembre. Ho trovato infatti quella piccola esperienza veramente istruttiva, proprio perché la particolarità della situazione, i suoi limiti molto marcati (lavoro a termine di quattro incontri, con molti bambini, nato su richiesta non dei genitori ma dei catechisti), facevano sorgere con più chiarezza alcuni aspetti. Come diceva giustamente Marone la volta scorsa, il portare degli esempi è sempre un po’ come estrarre un coniglio dal cilindro, sapendo cioè benissimo che non si estrae il resto, ben difficile d’altra parte da indovinare per il pubblico al quale manca quell’accesso privilegiato che spetta a chi porta il caso. Questo frammento ha in questo senso il vantaggio che c’è ben poco altro che potrei estrarre o che scelgo di non estrarre, ed è in questo senso che anche a me è stato utile: nella sua semplicità e limitatezza mi ha mostrato qualcosa.
Enrico, un bambino tendente a parlare piano, balbettando e incespicando con le parole, nell’ultima seduta insisteva nel dire che il suo disegno -prodotto sulla base della consegna “Qualcosa che vi è piaciuto del catechismo”- voleva dire che gli era piaciuto “qui”, “quello che facciamo qui”. Era la prima volta che non insisteva nel ripetere lo stesso disegno di […], che aveva invece disegnato pressoché identico tutte le altre volte e per di più a fronte di consegne diverse; era anche la prima volta che lo si vedeva dire qualcosa con un fare meno dimesso, meno rassegnato a non farsi ascoltare. Era infatti puntualmente capitato che fosse fra gli ultimi a parlare, ritrovandosi ad avere poca attenzione dei compagni, stanchi di stare a sentire, tanto più lui che parlava piano in una grande stanza rimbombante. Era anche capitato che lui stesso rivelasse, che questa situazione non era affatto casuale: la volta precedente al mio chiedere “Chi vuol cominciare a dire qualcosa del suo disegno?”, mi aveva risposto infatti per primo a voce alta, ma dicendo: “Io, io, io… per ultimo!”. Era stato in seguito non facile per lui provare a parlare non proprio per ultimo (“proviamo penultimo?”-gli proposi), ma alla fine ci era riuscito ed aveva partecipato anche attivamente al gioco. Quel giorno molti bambini avevano disegnato come personaggio cattivo una “maestra” che urla e strepita, ed avevo quindi proposto di rappresentarla nel gioco, chiedendo di proporsi per fare la maestra o i bambini. La scena fu ripetuta due volte, poiché c’erano molti bambini che volevano provare e mi parve importante dare comunque a chi lo chiedeva l’opportunità di farlo. Si trasformò ben presto in un gioco di bambini che fanno impazzire la maestra, disperata più che cattiva, ed anche Enrico pareva divertito e a suo agio nella parte, che aveva scelto essere quella di un “bambino”.
Nell’ultima seduta, lo ritroviamo che ripete insistentemente quel “qui, mi è piaciuto qui”, indicando il disegno di un cerchio di bambini e sforzandosi di far intendere qualcosa che però non riusciva ad arrivare. L’animatore, nella confusione di 10 bambini che vogliono tutti dire la loro, aveva tentato di fargli dire meglio quello che intendeva, ma senza risultato: in quel contesto non era possibile dargli un tempo di silenzio in cui raccogliere le parole e si era trovata costretta a lasciar perdere. L’insistenza inaspettata di quel bambino e il suo guardare fisso in direzione dell’animatore, mi interrogava però e mi fece venire in mente che forse -del tutto a sorpresa- intendeva dire “qui, nel gruppo di psicodramma”. Sono intervenuta come osservatore, per porre proprio questa domanda al bambino. Mi rispose che sì, sorridendo. È stata per noi una vera sorpresa: chi mai avrebbe pensato che quattro sedute con 10 bambini molto agitati, in cui non sempre era stato facile riuscire a costruire un gioco e in cui in particolare quel bambino spesso si era trovato a non avere spazio, potessero produrre l’effetto di far sì che si fosse trovato? Eppure era così, e fino al punto di volerlo dire nonostante la difficoltà. È chiaro che si è trattato di un piccolo effetto, ed è stato anche un bene che lo fosse giacché l’esperienza era a termine, ma nondimeno mi pare importante: mi ha mostrato molto chiaramente che dare la possibilità di uno spazio in cui poter dire e rappresentare qualcosa, può essere per un bambino davvero un’occasione, che lui/lei sa all’occorrenza mettere veramente a frutto. Ed in effetti fu proprio la mamma di questo bambino a chiedere, nell’incontro finale con i genitori, se c’era un motivo per cui suo figlio ripetesse quel disegno di un […]… vedere che lo aveva disegnato tutte le volte (tranne una in realtà), le aveva fatto sorgere qualche questione.
Vi ho riportato questo frammento di lavoro, perché mi pare possa costituire un buon punto di partenza su cui lavorare. In questo piccolo esempio si mostrano infatti già delle differenze nei modi in cui qualcosa emerge da parte dei bambini e si mostra anche pertanto la necessità di una certa disponibilità, da parte nostra, ad utilizzare il dispositivo, i suoi strumenti e la nostra presenza, in modo creativo. Abbiamo visto infatti che si può proporre di cominciare con un disegno e anche scegliere di dare una consegna (non costrittiva, ma neanche illimitata), si può quindi creare un canovaccio dai disegni per proporre un gioco, decidere di ripeterlo se occorre, chiedere di proporsi per fare questo o quel personaggio o chiederlo invece specificamente a qualcuno, può capitare che si ritenga utile intervenire come osservatori ponendo una domanda direttamente a un bambino o di proporre di non ripetere una posizione di parola nel gruppo a partire da qualcosa che il bambino stesso ha detto, ecc… In certi momenti può succedere anche di ritrovarsi a ribadire regole o di imporne di nuove, via via che le questioni si presentano: in quel contesto fu necessario, ad esempio, dare un tempo per disegnare, perché alcuni avrebbero potuto non terminare mai e altri finivano in un lampo; o ancora stabilire che si potevano prendere due o tre colori al massimo a testa, giacché la scatola era unica e i bambini tantissimi, ma derogare a questa regola se qualche bambino sosteneva di aver bisogno, proprio bisogno, di un altro colore per finire (“D’accordo, puoi andare a prenderne uno in più”, “Solo uno?… va bene, allora prendo l’arancio, ci vuole proprio”), ricordare di mettere il proprio nome poiché molti non lo ritenevano importante… Sono interventi che probabilmente non capita di formulare con gli adulti che sono invece all’ordine del giorno con i bambini, ma che hanno in fondo una logica, non poi così diversa: si propone un disegno e un tema perché si cominci a dire così qualcosa tenendo conto che qualunque cosa può essere significativa, così come lo si suppone con gli adulti quando si chiede di cominciare a dire qualcosa, qualunque cosa venga in mente, in generale o rispetto a un tema in particolare; si decide di porre una domanda diretta come osservatori, perché con i bambini l’osservazione è a volte l’unico momento silenzioso, in cui ci si ferma dal muoversi e dal parlare, e può perciò valere la pena di sfruttarlo per porre una domanda, così come con gli adulti lo si fa come animatori o in seduta individuale; si propone ad un bambino di non parlare per ultimo come al solito, giacché però lo annuncia lui stesso parlando per primo, così come talvolta si chiede ad un adulto di giocare una scena per tagliare un discorso ripetuto sempre uguale o si chiude una seduta sull’emersione di qualcosa di nuovo -per quanto piccolo- in un discorso, per il resto, sempre identico a se stesso; si ribadiscono o si inventano delle regole, perché è necessario che lo spazio di parola e rappresentazione sia tutelato e perciò si cerca di tenerlo aperto nonostante le difficoltà e le resistenze, così come con gli adulti ci si ritrova a tagliare un troppo di spiegazioni o pensieri, per aprire ad un’altra parola o al gioco, ecc.
Per usare la teorizzazione che ci ha portato Monseny nella sua lezione e che mi è parsa molto utile, si tratta con i bambini di porre diversamente le condizioni perché la finzione del discorso analitico possa darsi, ma sempre del discorso analitico e della sua finzione si tratta. È che con i bambini, è sicuramente molto più evidente un aspetto: è dal nostro lato, che si tratta di tenere presente che stiamo ascoltando da una posizione ben precisa. Loro sono disponibili a portare molto materiale, ma anche attraverso richieste, proposte, domande inusuali che ci spiazzano e rispetto alle quali sta a noi cioè ascoltarle da una posizione analitica. Per esemplificare: alla richiesta di prendere un pennarello in più, si risponde di sì o di no? Di fronte ad un bambino che chiede di uscire dalla stanza per andare a prendere una cosa che vuole mostrare, si acconsente, si rifiuta, o si chiede di attendere? Può sembrare banale, ma su ognuna di queste piccole cose si può aprire qualcosa, ed i bambini mi hanno insegnato a prestare molta più attenzione a questi dettagli anche gli adulti. Non c’è ovviamente una risposta unica alle domande che ponevo, come sempre del resto, non c’è cioè una tecnica già data appunto, ma è chiaro invece che in qualunque modo si risponda, si tratta di farlo non da una posizione educativa, correttiva o invece incline a favorire un certo comportamento, ma da quella di un ascolto. “Ascoltare” può allora talvolta voler dire che si acconsente e magari si chiede anche perché, altre volte che si rifiuta e basta, altre ancora che si rifiuta ma si chiede come mai è così importante, oppure si rifiuta per il momento e si chiede se ce la si fa ad attendere un po’… il punto non è cioè come si risponde, ma da che posizione si risponde e che conseguenze avrà quella risposta. Ricordo un ragazzino a cui ho detto di non parlare al posto di un altro in difficoltà a dire la sua, chiarendo “Credo che Marco sia capace di rispondere da solo”. Mi pareva infatti che si trattasse di una sua modalità confusiva e angosciante di non cogliere la differenza tra una sua difficoltà e quella dell’altro, che trovava buona accoglienza in Marco, quantomai restio a parlare ma anche sofferentemente bloccato in questo “Non ho niente da dire”. L’intervento, detto con quelle parole, venne accolto con un “D’accordo” e produsse un immediato effetto di scomparsa del risolino angoscioso e dell’agitazione motoria, che aveva pervaso e anticipato il suo tentativo di togliere d’impaccio Marco, consentendogli di stare un po’ silenzio senza agitarsi; come peraltro consentì a Marco di dire qualcosa, seppure con difficoltà. In un altro caso, del tutto a rovescio, la mia collega molto opportunamente chiese invece a una bambina di dire che cosa pensava fosse successo a Nino, che non voleva entrare e stava in silenzio, la bimba rispose che “Ricominciare, come a scuola dopo le vacanze, è difficile… forse per Nino è così”, consentendo di distendere l’atmosfera e poter cominciare a lavorare su qualcosa, intanto che Nino si pacificava un po’.
Due esempi del tutto opposti, che appunto per questo mostrano quanto non sia affatto questione di “tecnica”, di sapere in anticipo che cosa è più opportuno rispondere o fare. È anche evidente però allo stesso modo, che con i bambini è molto più frequente esser chiamati a intervenire e che si ascolta… anche intervenendo -potremmo dire. Il valore di un intervento, nel senso della sua funzione, e pertanto le sue conseguenze eventuali, dipendono però anche dal fatto che si sia o meno instaurato un transfert… vale a dire, per tornare alla mia pratica, che probabilmente non mi sarei potuta permettere di fermare così recisamente e con quelle parole un bambino che stava parlando al posto di un altro nel gruppo parrocchiale, ma lo potevo fare e ha avuto un senso farlo nel piccolo gruppo terapeutico in studio. Lì, un lavoro e quindi un transfert era avviato.
Il transfert: accogliere la parola del bambino
Veniamo quindi al transfert ed alla sua importanza nel lavoro con i bambini. Partirei da un fatto molto semplice e che mi ha colpito fin dalle prime sedute di psicodramma: i bambini, per quanto caotica possa essere la seduta, per quanto poco partecipi possano essere sembrati, per quanto propensi all’agire possano essere, sono molto attenti all’osservatore, curiosi di sentire ciò che ha da dire, disposti a fermarsi per ascoltare. Ma per ascoltare che cosa? Qualcuno che parla di ciò che ha osservato del loro lavoro. L’ho potuto rilevare anche in quella piccola esperienza parrocchiale di cui parlavo prima: nonostante la baraonda che erano riusciti a ingaggiare fino ad un attimo prima, ai bambini interessava sapere che cosa l’osservatore aveva da dire e senza difficoltà si fermavano dal muoversi o dal parlare. Dirò di più, era più semplice, lì come anche nei gruppi terapeutici, chiedere loro di fermarsi per ascoltare l’osservazione, che per qualunque altro motivo.
Martine Menes, parlando del transfert con i bambini sottolinea che “l’amore non è particolarmente richiesto”, ma che invece il semplice accoglimento della parola del bambino “produit de fait d’emblée une affectation du lien”, che letteralmente significa “produce di fatto immediatamente un’affettazione del legame”, cioè un legame attraversato dalla dimensione dell’affetto. Ed è qualcosa che in effetti nello psicodramma e rispetto all’osservazione, si vede davvero da subito. La posizione dell’osservatore è proprio quella di chi si dispone all’ascolto: all’aprirsi della seduta, uno dei due terapeuti è lì solo per ascoltarli, si porta dei fogli per scrivere quello che dicono, prende appunti su quanto accade… già questo, lascia i bambini favorevolmente stupiti e curiosi. Menes ci spiega qualcosa di questo effetto, precisando che l’accogliere la parola del bambino gli significa che merita di essere ascoltato ed immette perciò qualcosa che è già e di per sé dell’ordine dell’affetto. È possibile quindi che senza difficoltà i bambini stiano a sentire che cosa ha da dire l’osservatore, perché dirà qualcosa che li riguarda ed è qualcuno che si è preso la briga di prestare attenzione alle loro parole. Non solo, è ben facile che i bambini si sentano anche di rispondere all’osservazione in corso e lo fanno sempre in modo discreto, non debordante, puntuale.
Lacan in effetti ci dice qualcosa di simile nel Sem. VIII, sostenendo che: “[…] è al principio stesso della situazione che il soggetto è introdotto come degno d’interesse e di amore, eromenos. Siamo lì per lui.”(pg.213). Lacan ne deduce che è per questo e sulla base dell’inscienza del soggetto di ciò che è il suo oggetto di desiderio -che è già nell’Altro- che il soggetto è non solo eromenos ma anche virtualmente costituito come erastes (amante). È cioè virtualmente già introdotto alla dimensione dell’amore, come effetto possibile di metafora di un suo divenire da eromenos a erastes, da amato e meritevole di interesse, ad amante e interessato a qualcuno. È un passaggio non poi così semplice, in cui non mi avventuro troppo per insufficienza delle mie competenze e anche perché penso che avrete modo di affrontarlo meglio in altra sede, ma mi premeva rilevare che il fatto di essere lì per qualcuno, cioè di dare la propria disponibilità ad ascoltare non è alcunché di neutro, tutt’altro. Che ci si disponga ad accogliere la sua parola, che gli si dica con questo che le sue parole sono meritevoli di interesse, è già qualcosa di attraversato da una dimensione affettiva, è già qualcosa che introduce il soggetto ad un lavoro in cui la dimensione affettiva è implicata. Il fatto che da questo possa svilupparsi il transfert è in questo punto solo virtualmente possibile, è da verificare e costruire, ma già questa disposizione pone le basi perché si sviluppi, può non essere cioè senza conseguenze. Lacan fa infatti questa sottolineatura per spiegare quei fenomeni di fiammata amorosa, presenti già dai primi sogni o ancora prima che l’analisi inizi. Ne conclude che non c’è proprio niente di cui stupirsi, ne vi è motivo di ritenerla una controindicazione all’analisi, ma aggiunge che “È qui che si pone la questione del desiderio dell’analista e fino a un certo punto, della sua responsabilità”. Vale a dire, che già questa semplice disposizione all’ascolto dell’altro, presuppone un’etica di chi la tiene, proprio perché potrebbe non essere senza conseguenze.
Sono stata colpita da questa sottolineatura, se volete marginale nel seminario, proprio perché ne leggevo qualcosa, pensando a cosa avrei potuto dirvi sul transfert con i bambini. È proprio con i bambini in effetti che questa “affettazione del legame” già inclusa nel semplice fatto di disporsi ad ascoltare, si mostra chiaramente nella loro disponibilità a stare a sentire l’osservazione e anche ad accettare quello che gli proponiamo. Questo sorprende o almeno mi ha sorpreso, giacché in genere proprio i bambini sono i più rimproverati rispetto al non ascoltare: “non ascolta niente” o “Non mi ascolta” è una lamentela frequente di molte figure educative, in primis i genitori.
Lacan diceva però, in quella citazione, che è qui che inizia la responsabilità dell’analista e forse è importante cercare di capire in che senso si può intendere questa precisazione per quello che è il campo di lavoro con i bambini. Perché in effetti, a partire da cosa, con che direzione, ci si dispone ad ascoltare un bambino? Già in questa accoglienza della sua parola, lo riteniamo infatti implicitamente un soggetto, che potrebbe portare una sua domanda e che potrebbe per questo cominciare un lavoro di analisi. Sarebbe a dire che già in questo punto di inizio, riteniamo in qualche modo che la domanda dei genitori che ce lo portano, non sia necessariamente la stessa del bambino e che egli potrebbe costruirne una di sua sulla base della quale poter lavorare.
Transfert e domanda…
Che ci sia una domanda del bambino e che, a partire da questo, si possa lavorare attraverso il transfert è in fondo anche la posizione di Freud nei riguardi del piccolo Hans. Non tutta la successiva teorizzazione e pratica con i bambini delle Scuole psicoanalitiche è andata però in questa direzione: Menes ci ricorda infatti che ad esempio le pratiche ispirate ad Anna Freud non presuppongono affatto questo, ma che il lavoro con i bambini si riduca in definitiva ad un’alleanza educativa con i genitori e un intervento preventivo con il bambino, supposto non essere sufficientemente “maturo”, “strutturato” nelle sue difese per sostenere un lavoro analitico. Diversa è stata la posizione di Melanie Klein, a cui Lacan più volte si è riferito in senso positivo, che ha invece sottolineato nella teoria la possibilità di un Edipo precoce e nella pratica quella di una interpretazione “oracolare”.
Si tratta di una differenza non da poco, anche per ciò che concerne il transfert, poiché in un caso lo si presume impossibile, mentre nell’altro lo si utilizza a pieno titolo. Domanda del soggetto che entra in un processo analitico e transfert non sono in effetti aspetti tra loro indipendenti, al contrario si implicano. Che si possa cioè portare una domanda, non è senza il fatto che questa domanda la si rivolge a qualcuno. Possiamo vedere qualcosa di questa implicazione tra domanda e transfert anche con i bambini, già nel caso del piccolo Hans.
Freud, compreso subitaneamente -nel vedere padre e figlio insieme- che probabilmente il nero intorno alla bocca dei cavalli che dava fastidio ad Hans aveva a che fare con dei “baffi”, i baffi del papà, decise infatti di intervenire. Spiegò allora ad Hans che forse, poiché voleva tanto bene alla mamma, “credeva che il babbo fosse arrabbiato con lui, ma non era vero, il babbo gli voleva bene lo stesso e lui poteva confessare tutto. Già tanto tempo prima che lui venisse al mondo, io già sapevo che sarebbe nato un piccolo Hans che avrebbe voluto così bene alla mamma da aver paura, per questo, del babbo, e tutto questo l’avevo raccontato al papà”. Quest’unico intervento nella cura di Freud, produrrà un’elaborazione successiva ricchissima di Hans sulla sua “sciocchezza” (così chiama la fobia per i cavalli), rispetto alla quale lo vediamo riferirsi al “Professore”, al quale vuole siano scritte certe sue fantasie o pensieri e che chiama in causa per ribattere al padre. Riferendosi al fatto che Hans ha appena confessato di aver pensato che la sorella potrebbe cadere nella vasca e così lui avrebbe la mamma tutta per sé, il padre gli dice che certe cose i bravi bambini non le pensano, ma Hans gli risponde prontamente: “Farle no, ma pensarle […] sì che sta bene, così poi uno le può scrivere al professore”. Lo stesso Freud in nota gli fa qui i complimenti: neanche da un adulto si aspetterebbe una miglior comprensione della psicoanalisi, del fatto cioè che in analisi non si tratta di giudicare se un pensiero è buono o meno, ma di trattarlo come un materiale su cui non agire, ma elaborare.
In effetti quell’unico ma esemplare intervento di Freud, produce sia un riferirsi di Hans a lui come “il professore” che sapeva già tutto e al quale si vanno a dire i propri pensieri, compresi quelli che non stanno bene, sia una presa di posizione di Hans rispetto alla sua cura, di cui Freud dice addirittura che è Hans -a un certo punto- a prenderne la direzione, essendo i genitori un tantino sordi rispetto ad alcuni punti. Nel momento in cui si instaura un transfert per il professore, per Hans è anche possibile cominciare a produrre del materiale. D’altra parte la lungimiranza di Freud è in questo punto veramente degna di nota: egli esplicitamente spiega infatti che non ha fatto quell’intervento perché il problema si risolvesse, viceversa perché fosse data ad Hans la possibilità di “portare avanti le sue produzioni inconsce e di dipanare la sua fobia”. Freud è qui impegnato con Hans, perché Hans faccia il suo lavoro analitico, ed ha piena fiducia sul fatto che sia in grado di portarlo avanti, persino nonostante la sordità (più che comprensibile del resto) del genitore che lo ascolta. Vediamo qui proprio bene quanto la domanda di Hans di curare la sua “sciocchezza” divenga una sua domanda solo dal momento in cui Freud si pone per lui come un interlocutore: che lo sta a sentire, che prende sul serio ciò che ha da dire, ma anche che interviene, a partire da ciò che Hans dice, e a cui -grazie a quel mito del “io già sapevo…”- il bambino si può indirizzare. Va infatti notato che Freud non si permette quell’intervento, prima di aver chiesto ad Hans se per caso il nero dei cavalli non potesse avere a che fare con dei “baffi”. Solo dopo il “sì” di Hans, interviene. Ed è sulla base di quell’intervento, fatto quindi al momento opportuno, che Hans comincia davvero a lavorare. Freud si presta così ad accogliere la sua domanda, benché per il resto il trattamento si snodi per interposta persona del padre.
I bambini sono quindi in effetti perfettamente in grado di rivolgere delle domande, ma a patto che ci sia qualcuno ad accoglierle, qualcuno a cui a portarle. Ve ne porto un esempio, che mi pare interessante. Un bambino in avvio di seduta di psicodramma ci pose la seguente questione: “Volevo chiedere una cosa importante…posso essere aiutato a risolvere un mio problema?… quando Paolo dice che ‘rompo’, io mi sento rifiutato e ci sto male”; un altro giorno si sedette sulla sedia e annunciò “Oggi volevo proporre di disegnare una cosa, che mi fa stare male… a scuola sono sempre picchiato da due bambini…”. Vediamo qui che Fabrizio non viene in seduta semplicemente perché portato da qualcuno, ma arriva a partire da qualcosa che a lui stesso fa “questione”, da qualcosa da cui lui per primo è disturbato e che gli fa in qualche modo “sintomo”. Menes, su questo punto è categorica: occorre che il bambino sia “disturbato” da qualcosa, occorre che ci sia cioè una domanda del bambino e non solo una domanda dei genitori che arrivano per questa o quella lamentela, o per questa o quella indicazione date dalla scuola o da qualche altro rappresentante istituzionale. Aggiungerei che, per prima cosa, è allora necessario che noi supponiamo ci possa essere una domanda del bambino, che ci possa essere qualcosa che a lui/lei disturba… può essere la stessa cosa che lamentano i genitori, può essere tutt’altro. Ha quindi un’importanza relativa il mettere a suo agio un bambino, far sì che venga volentieri: è importante, ma questo talvolta accade -come abbiamo visto- anche solo per il semplice fatto di accogliere la sua parola, o perché siamo interessati a quello che propone, o ancora perché non siamo lì a dirgli cosa deve o non deve fare. Ciò che conta davvero è invece che, a partire da questo, si trovi un modo per far sì anche che lavori, poiché appunto lo supponiamo in grado di farlo. Supponiamo noi per primi, insomma, che ci sia uno spazio di lavoro di cui è responsabile e in cui gode di un minimo libertà, per quanto pervasivo possa essere il discorso familiare che lo ha preceduto e in cui è incluso. Rispetto a questo in “L’inconscio a cielo aperto della psicosi”, Colette Soler fa notare che nel caso “limite”, per gravità e peso delle vicende traumatiche, del bambino del “lupo” (citato anche da Lacan nel Seminario I) si può comunque parlare di un lavoro analitico. Colette Soler sostiene che è possibile infatti rilevare un transfert, benché con formula inversa rispetto alla nevrosi: in quel caso è infatti dal lato dell’analista che si suppone un sapere sul Reale nel bambino. Poiché tale supposizione per quanto inversa è operante, un lavoro si avvia e Colette Soler ne rileva più di un passaggio estremamente significativo, nonostante tutti i limiti e le riserve che si possono avanzare. Anche il bambino del “lupo” insomma, per quanto grave, ospedalizzato e anche traumatizzato sia stato, aveva una possibilità, un margine di lavoro.
Tornando allora a Fabrizio e alle sue questioni, va detto che […] le due questioni arrivano infatti dopo che per molte sedute era stato per lui difficile stare seduto e non farsi distrarre o infastidire da Paolo, con il quale ingaggiava dei giochi di specularità, ripetendo tutto quello che faceva l’altro o sentendosi attirato dalla sua persona, per poi mal sopportare le uscite di quest’ultimo a lui rivolte con dei secchi “Non rompere”. Il lavoro dell’animatore fu quello di di far notare -ad esempio- che forse tutte queste scaramucce, erano un modo di dire non di un rifiuto ma di un interesse, e quello dell’osservatore di far rilevare che non era parso che in quei momenti si divertissero, nonostante le risa sguaiate, e di chiedere pertanto come mai non ci si riusciva a fermare. Nel tempo, questo produsse degli effetti per Fabrizio, che rispose ad esempio all’osservazione, dicendo che era vero che non riusciva a fermarsi e che quando accade è “perchè sono agitato”. Disse anche in un’altra occasione che Paolo gli mancava quando era assente, che Paolo era importante per lui. Qui Fabrizio coglieva cioè che in quelle risa non c’era proprio niente da ridere, ma al contrario qualcosa di una sua difficoltà e di un suo interesse per Paolo. Cominciò così -come avete sentito- a leggere il rifiuto di Paolo in un altro modo e anche a portare la questione dello star male per qualcosa fatto non da Paolo, ma da altri bambini, quelli che incontrava fuori dal gruppo.
Si tratta insomma di far sì che quanto viene portato, rappresentato, o che accade, diventi un materiale sul quale lavorare, sul quale trovare un modo di lavorare. Lacan in “Funzione e campo della parola e del linguaggio” (pag. 245), dice che lo psicoanalista opera nel migliore dei casi cogliendo in particolare una “parte” di quello che viene detto, cioè “prendendo il racconto di un fatto quotidiano come un apologo che al buon intenditore rivolge il suo saluto, una lunga prosopopea come un’interiezione diretta, o al contrario un semplice lapsus come una complessa dichiarazione, il sospiro di un silenzio come l’intero svolgimento lirico al quale supplisce”. Intendo questa precisazione, a partire dall’esperienza di lavoro con i bambini, come un dirci che si tratta di ascoltare a partire da altro, che si tratta cioè di cogliere qualcosa nel discorso che apra ad altro.
È una posizione di ascolto quindi quella che si tiene dunque, ma non certo di un ascolto che si presti a confondersi con una posizione semplicemente passiva. Nello scrivere queste righe per voi, mi sono resa conto di quanto l’esperienza con i bambini, abbia costituito per me proprio un insegnamento in questo senso, escludendo radicalmente che per “ascolto” si possa intendere “attesa passiva” e aprendomi ad una dimensione più sfaccettata di ciò di cui si tratta nell’ascolto analitico. Che si ascolti cioè in molti modi, talvolta anche intervenendo (persino recisamente, se proprio occorre), è cioè qualcosa che con i bambini mi è balzato agli occhi e che mi porto via come prezioso. Forse, mi verrebbe da dire, è questo uno dei modi con cui si può leggere la famosa indicazione di Lacan, sul fatto che ciò che occorre è ascoltare, ma non nel senso di capire, di intendere. Se non ho capito, se non ho inteso infatti, certamente chiederò qualcosa, non darò per scontato, non lascerò che la faccenda si chiuda lì.
Nel transfert qualcosa sia attualizza…
Tornando quindi al transfert, si tratta appunto che il soggetto, benché sia un bambino, possa indirizzare la sua domanda a qualcuno. In questo punto sarà allora possibile, che un transfert per quella persona si sviluppi, mostrandosi nel suo lato virtuale ed anche in quello attuale, precisa Menes. Con ciò ella intende che il transfert non è mera ripetizione, nel transfert viceversa si attualizza, si riproduce in tempo reale qualcosa, ossia la modalità del soggetto di aver a che fare con l’Altro, la sua posizione di oggetto nei confronti del desiderio dell’Altro. È una relazione che ha lo statuto di illusione, che per questo può presentarsi nel registro di una qualunque delle passioni dell’essere: amore, odio o ignoranza (indifferenza). Ma è anche una relazione in cui il soggetto non è lì solo per ripetere come da qualunque altra parte, ma anche perché suppone all’analista un sapere (oltre che un avere) ciò che gli occorre, dal quale può scaturire, quindi, un interesse per la persona che detiene tale sapere e lo sviluppo di una nevrosi di transfert. È proprio per il fatto che il transfert non è solo ripetizione acefala di una modalità, ma “riproduzione” di qualcosa in una relazione attuale, segnata dalla supposizione di sapere, che è un processo creativo, qualcosa su cui poter lavorare.
Gaia, ad esempio, si è presentata a noi come una bimba graziosa, sorridente, ma anche molto incline ad accondiscendere, a non portare le sue questioni ma ad aderire a quello che altri portavano. Era frequente che alla richiesta di raccontare o dire qualcosa, ella raccontasse non qualcosa di suo, ma qualcosa di ciò che accadeva in famiglia “Noi pensiamo….”, “Noi facciamo… e allora poi succede”, “Abbiamo deciso…”, apparentemente riportando discorsi sentiti da altri, che si ritrovava a ripetere. Sulla base di questo ascolto del suo dire, ci ritroviamo a lasciar cadere questi suoi interventi e a sottolineare invece spesso come importante qualcosa di detto proprio da lei o di portato da lei, per quanto piccolo potesse essere… qualcosa comincia a cambiare. Gaia diventa meno accondiscendente anche con noi, si permette di fare confusione con gli altri bambini, come loro non si ferma subito dal fare baccano. Le viene concesso di farlo, sebbene non più che altri, anche perché contemporaneamente comincia a voler ogni tanto dire qualcosa che proprio la riguarda: si tratta di alcuni gattini, adottati dalla sua famiglia. Gaia ha infatti scoperto che qualche volta i “grandi” ammazzano qualche cucciolo… la cosa le fa davvero orrore. Il tema dei gattini ritornerà molte volte, tenendoci aggiornati sullo loro stato di salute, e inoltre, rispetto alla richiesta di designare una fantasia orripilante, la bambina sceglie di rappresentare proprio i gattini che rischiano la morte. Un giorno Gaia ci racconta una cosa importante, a partire dal suo dire -stavolta un po’ scocciata- che in effetti a casa sono sempre di fretta, come quando, da bambina […]. Si trovava così ad essere “di corsa” e in più spaventata, per qualcosa che cioè non la riguardava.
In sede individuale Gaia comincia anche a porsi delle questioni rispetto ai genitori: non ha più paura che si separino, come loro avevano più volte riferito, ma teme di essere stata adottata… Mi sembra che qui si mostri appunto, quanto una sua modalità di presentarsi accondiscendente anche con noi non fosse affatto casuale, ma invece segno di una confusione in cui non riusciva a reperirsi, in cui non riusciva in alcun modo a separarsi. A partire dal nostro non dare per scontato che così andasse bene, ma chiedendole invece di dire qualcosa in proprio -passasse questo anche per una certa indisciplina-, è stato per lei effettivamente possibile porre delle questioni e porsi delle questioni. A maggio giunge in gruppo tutta fiera di aver fatto i “buchi” alle orecchie: era tanto che doveva farli, ma fino ad allora aveva avuto troppa paura, invece adesso – dopo averne parlato in gruppo- lo aveva chiesto lei alla mamma ed era andato tutto bene.
Gaia ci mostra bene, quanto fosse dentro il discorso familiare, al punto da non distinguere chi era o era stato di fretta, e come mai. “Noi siamo di fretta” diventava anche un suo esser di corsa, aderendo a quello che veniva chiesto o detto dall’Altro. Menes ci dice che il bambino, per stato della struttura che si va creando in quello stesso momento, è particolarmente in presa diretta con questo desiderio dell’Altro di cui si fa oggetto, e che quindi sarà necessario -più che in altri casi- guardarsi dall’occupare la posizione di Altro desiderante, ma tenere quella di causa lasciando quindi che il bambino possa reperirvi il suo proprio desiderio. Per come intendo io questa precisazione, si può pensare che l’amore che la Menes diceva non esser particolarmente richiesto con i bambini, non sia e non vada richiesto, proprio per questo motivo. Ma se ne possono forse trarre anche altre considerazioni. Non mettersi nel posto dell’educatore, ad esempio con Gaia, è stato secondo me in effetti un altro dei modi di sottrarsi dalla posizione di Altro desiderante, così come anche il tenere presente che non era lì per smettere di fare o di non fare una certa cosa, ma per fare un lavoro, che certo poteva avere come effetto auspicabile l’esaurirsi o il modificarsi di una certa modalità o di un sintomo, ma verso cui non era richiesto dall’analista di dirigervisi direttamente. Menes ci ricorda infatti che la psicoanalisi è una “terapeutica non come le altre, ma non è una psicoterapia”, cioè che rispetto al sintomo si tratta non di guarirlo, ma di interrogarlo. Sarà la produzione di un sapere da parte del soggetto, che questa posizione interrogante gli consente, ad avere un effetto terapeutico e non il contrario. Menes precisa che l’analista non si dirige infatti verso un dare “senso” a ciò che il soggetto domanda, cosa che può avere degli effetti di sollievo ma che crea anche una dipendenza di transfert, ma di interrogare viceversa la sua domanda, aprendo all’enigma. Mi pare che con parole diverse, lo dicesse anche Izcovich nell’ultimo convegno di Mestre, quando sosteneva appunto che la psicoanalisi non è una psicoterapia, ma che nondimeno l’ascolto di uno psicoanalista è probabilmente la miglior cosa che a un soggetto -che va a chiedere una psicoterapia- possa capitare di incontrare… la posizione di ascolto di un analista ha cioè i suoi effetti anche terapeutici, ma non perché si sia lì per perseguirli. È un punto di distinzione, per me a tratti non così chiaro, ma che i bambini mi consentono sempre di rimettere al lavoro.
Transfert di transfert: i genitori e il lavoro del bambino
E veniamo qui a un punto delicato nel lavoro con i bambini, poiché questa direzione di lavoro, si incontra (e scontra) con il fatto che non c’è solo il bambino con cui si ha a che fare, ma anche con i genitori che non vengono a chiedere per sé in effetti né analisi, né terapia, ma che sono nondimeno implicati nel lavoro del bambino. È chiaro infatti che i genitori vengono perché il problema del figlio, quale che sia, si risolva, e non è che questo non si possa tenere in conto. Non poche volte ci siamo trovate nella difficile posizione di sostenere un lavoro del bambino, che non produceva gli effetti sperati dal genitore o non nel tempo atteso, o ancora che li produceva rispetto alla domanda dei genitori, ma ciò non esauriva invece affatto la domanda del bambino. Di tutto questo, potrebbe senz’altro dirvene di più Irene Baruzzo, che per gran parte si occupava del lavoro con i genitori e che spero avrà occasione, prima o poi, di farlo per noi. Ciononostante mi sento comunque di dirvi qualcosa, giacché rientra a pieno titolo nella questione del transfert con i bambini: senza infatti che un transfert si instauri anche con i genitori, è ben difficile iniziare e tanto più sostenere un lavoro con i bambini. Sono i genitori o meglio “gli adulti che decidono” (come li chiama la Menes), i primi a indicare al bambino che di quella persona ci si può fidare o che può aiutarlo, o che ha un sapere su quello che non va in lui/lei, ecc… come fu rispetto a Freud per Hans: il padre aveva la massima stima e fiducia del “professore” e lo indicò al figlio come tale. Menes lo chiama instaurare un transfert di transfert.
Rispetto a questo, ricordo in particolare una mamma, che mi aveva conosciuto nel colloquio con genitori e bambino di ingresso al gruppo. In quel colloquio si era presentata alquanto sulla difensiva rispetto alla nuova situazione, che mi comprendeva. Pose direttamente a me diverse domande sul dispositivo ed in particolare si preoccupava del fatto che i bambini, ossia suo figlio, fossero disturbati dalla presenza dell’osservatore… cioè da me, dato che era stato esplicitato che per le prime sedute avrei occupato in modo fisso quella posizione per alternarmi in seguito. Cercai di spiegarne la funzione e di rassicurare, dando importanza a ciò che mi veniva chiesto; in seguito si parlò anche di altro, in un clima che ci parve più disteso. Ne ebbi la prova all’uscita dalla prima seduta di gruppo: in sala d’attesa la signora mi salutò infatti calorosamente e molto meno sulla difensiva della volta precedente, mi disse “Ho saputo che lei conosce Axxxx Bxxxx,…mi fa molto piacere”. Francamente non mi ricordavo di conoscere la persona citata e mi stavo anche chiedendo che cosa volesse dire questo “ho saputo…”; d’altra parte mi pareva anche che questa rassicurazione per questa mamma fosse davvero importante, tanto più che ella non chiedeva a me se fosse vero, ma lo poneva come un fatto certo. Mi astenni pertanto dal chiarire se la conoscevo davvero, tenendomi su un piano più vago. Fu un bene, la signora prese infatti a parlarmi di quanto lei fosse stanca, senza palesare altre ombre di diffidenza e portando per un certo tempo serenamente il figlio al gruppo.
Più di recente mi è capitato di iniziare una breve esperienza di psicodramma in un Centro di sostegno scolastico per bambini e preadolescenti con disturbi di apprendimento. La richiesta ci è venuta dagli operatori del Centro, e deve essere stata passata ai giovani soggetti con una certa fiducia in noi e nel fatto che il lavoro poteva essere utile, giacché quasi tutti hanno scelto di partecipare e già dalla prima seduta li abbiamo trovati ben disposti a mettersi al lavoro.
Chiarito questo punto di avvio del lavoro che prevede che una qualche forma di transfert si instauri innanzitutto con i genitori, si tratta poi di farlo proseguire e quindi di mantenere questo spazio di apertura e di transfert. Come dicevo non sempre è facile, vi si possono incontrare tutte le difficoltà che citavo all’inizio e molte altre ancora, ma mi pare che innanzitutto sia difficile capire in che posizione mettersi nei loro confronti. Non possiamo tenerli del tutto fuori dalla porta, né però contemporaneamente lo spazio del bambino deve essere per questo meno garantito. Menes dice che si tratta di produrre una nevrosi di transfert, senza trattarla, sincerandosi che i genitori siano disponibili invece a lasciar posto al bambino e al suo lavoro. Come lo dice lei è molto chiaro, ma quale ne sia la ricaduta pratica non è così evidente, almeno non per me.
Devo dire però che questa frase mi ha fatto tornare alla mente molti momenti in cui era chiaro che i genitori dei bambini avevano piacere di scambiare alcune parole con Irene o con entrambe, raccontando anche cose non strettamente legate al bambino e spesso dicendo come si sentivano. Tra questi vi era chi riusciva a fermarsi da solo, rendendosi conto che “il troppo stroppia”, ossia che quello non era il suo spazio, con altri era invece necessario mettere un fermo. Mi rendo conto ora che forse l’incapacità di fermarsi è stata in qualche caso segnale del fatto che per il lavoro del bambino c’era posto solo in modo parziale, ed è capitato in effetti, dopo un miglioramento parziale, che i genitori decidessero di interrompere il lavoro.
Anche rispetto genitori, va detto che il lavoro con i bambini comporta di ritrovarsi in situazioni singolari. La più sorprendente per me, si è verificata proprio (e forse non a caso) con la signora “diffidente” di cui dicevo prima […].
Era questo uno spaccato, singolare certamente, ma che vi ho portato perché a me ha segnalato qualcosa, vale a dire che lì -come anche in tutte le occasioni in cui questa mamma parlava con la collega o con entrambe- era necessario per un verso non entrare troppo nei dettagli della sua difficoltà con i figli, quello non era in effetti il luogo per poter dire e trattare le sue questioni, ma per l’altro era anche necessario mantenere aperto uno spazio in cui qualcosa venisse comunque detto o riconosciuto e affinché ci ponessimo come degli interlocutori anche per lei, sebbene solo parzialmente.
Non eravamo certe che questa donna potesse accedere ad una nevrosi di transfert, ma nondimeno l’indicazione della Menes di lavorare perché si avvii una nevrosi di transfert senza trattarla, resta in un certo senso valida: anche con lei si è cercato in effetti di porsi come interlocutori di qualcosa, senza trattare contemporaneamente la questione, si è lasciato cioè che lei potesse trovare accoglimento e supporto su quel suo essere “stanca”, lasciando il “di cosa” sullo sfondo.
Per oggi mi fermerei qui, attendendo di sentire che cosa vi ha suscitato questo mio lavoro.
Annalisa Bucciol