Il trauma necessario

Giornata di apertura Icles sul tema del corso 2018 “L’esperienza del trauma e la psicoanalisi”

13/01/2018

Parto da una domanda: quando Freud è diventato psicoanalista? La risposta, in un certo senso, è semplice: quando ha abbandonato due cose – e lo dirà in modo esplicito in alcuni scritti – ha abbandonato la tecnica dell’ipnosi, come metodo di trattamento clinico delle nevrosi isteriche, e ha abbandonato la teoria della seduzione, intesa come evento biografico, traumatico, subito – nella realtà – dalle sue pazienti. Traggo queste sue parole, dall’“Autobiografia” (1924 –vol X pag.102): “Quando in seguito mi vidi costretto a riconoscere che tali scene di seduzione non erano mai avvenute in realtà, ma erano solo fantasie create dall’immaginazione dei miei pazienti – e magari anche suggerite da me – rimasi per un certo periodo assai disorientato. La fiducia nella mia tecnica e nei suoi risultati subì un fiero colpo….tuttavia una volta riavutomi, fui subito in grado di trarre dalla mia esperienza le giuste conclusioni: i sintomi nevrotici non erano collegati direttamente a episodi realmente avvenuti, ma piuttosto a fantasie di desiderio, per la nevrosi la realtà psichica era più importante della realtà materiale”.

Freud riconosce insomma una necessità, nella quale si è ad un certo punto venuto a trovare, e un piccolo trauma narcisistico, come studioso e come clinico. Dirà anche, a quel punto “non credo più ai miei nevrotici…”

Sono due radicali viraggi, per Freud, logicamente connessi anche se forse non proprio cronologicamente coincidenti, uno in senso tecnico e l’altro in senso etico.

Eppure, dicendo “non credo più…” Freud fonda una nuova fiducia, incondizionata, rispetto alla verità del soggetto, che è unica e singolare e indimostrabile perché non consiste tanto in un sapere degli/sugli eventi della vita, ma giace, piuttosto, nel segreto della costruzione fantasmatica che ciascuno, inconsciamente, ha elaborato, proprio per velare, per rendere a sé stesso sopportabile, vivibile perciò, quel nucleo di reale che è stato (e resterà) traumatico, la ferita originaria. Trauma, lo ricordo vuol dire – alla lettera e in origine “ferita”. Nel dizionario Treccani leggiamo: “turbamento dello stato psichico prodotto da un avvenimento dotato di una notevole carica emotiva”, in medicina “lesione prodotta nell’organismo da un qualsiasi agente capace di azione improvvisa, rapida e violenta”.

Credo che mai come oggi la parola “trauma” sia usata…e abusata, è perfino ridondante il continuo ampliarsi dell’inventario dei possibili traumi che minacciano (in famiglia, a scuola, ecc.) l’equilibrio psico-fisico dei bambini. Gli adulti – mi capita di notare quando ascolto madri o padri che mi vengono a consultare – hanno molta paura di essere “traumatizzanti” per i loro figli: mi sembra una paura, in parte, nutrita da un sapere psicologico e da un discorso generale che non hanno – a mio avviso – effetti illuminanti, al contrario inibitori rispetto all’atto, l’atto cui autorizzarsi per educare i propri figli e nel quale prendere, necessariamente, il rischio della propria mancanza. Ma non è questo adesso l’oggetto del mio intervento e non svilupperò tale questione.

E’ comunque un fatto evidente che ci sia un gran parlare – in ambiti educativi, sociali, psicologici ,scolastici, ecc…- soprattutto di “situazioni” dette o pre-dette che siano, traumatiche, al plurale…al punto che – oggi – tutto è facilmente e quasi sbrigativamente definito come “traumatico”, “traumatizzante”, ma facendo come si dice di ogni erba un fascio si entra, credo, in una grande confusione, a livello immaginario.

C’è – invece – un punto di cruciale differenza tra la psicoanalisi e le altre discipline “psi” quali che siano: per la psicoanalisi il trauma è sempre singolare. Per ciascun essere umano, essere parlante, ce ne è uno, ce ne è stato uno solo, il suo. Colette Soler dice: “Non c’è alcuna figura universale del trauma costituente del parlessere…a livello della struttura le prime volte dell’infanzia sono per sempre… è quello che si ripete per un soggetto dato, ossia il suo trauma originario, che assicura la presenza del bambino unico che egli fu, nell’adulto”. (“Quel che resta dell’infanzia” pag.72)

Una questione fondamentale, peculiare – come possiamo trarre da queste parole – dell’approccio al trauma, nella psicoanalisi, è che il trauma è innanzitutto, un fatto strutturale e in questo senso si può definirlo necessario…necessario al costituirsi del soggetto infans nella sua dimensione umana, ossia nel suo rapporto con l’Altro. Si può rovesciare la questione, considerando quale sia il destino di quegli esseri umani – e ce ne sono, basti pensare ai bambini autistici, il caso più estremo – che sfuggono all’esperienza del trauma. La loro cura – nell’orientamento che la psicoanalisi ci può dare – punta proprio ad introdurre, nella bolla di un godimento chiuso all’Altro, ferocemente compatto, impenetrabile, qualche piccola, graduale, lacerazione, qualche scheggia di trauma….

Torno sul testo appena citato, pag.62 :

L’espressione trauma infantile sottintende…che ogni bambino ha un trauma…un trauma che, a differenza di qualsiasi altro, non è accidentale. Freud descrive le esperienze traumatiche dell’infanzia (nel testo Aldilà del principio di piacere 1920) …e vediamo immediatamente che coinvolgono molto più che le eccitazioni pulsionali. Ci descrive una sorta di trauma del rapporto al grande Altro, nel quale la delusione è come programmata…un trauma che potremmo in qualche modo qualificare edipico. Freud descrive un Altro che non potrà che deludere, in modo triplice, al contempo l’attesa dell’amore, l’esigenza del sapere sessuale, e l’aspirazione alla creazione. In fondo è il senza uscita della domanda che è traumatico”.

Il trauma, insomma, è sempre una faccenda tra-umani, mi permetto questo gioco di parole. Le esigenze e gli eccitamenti pulsionali – da soli – non sono, dice Freud in “Inibizione Sintomo e Angoscia” “in sé stesse un pericolo”. Certo possono essere angoscianti, richiedendo al soggetto delle invenzioni sintomatiche per il loro trattamento, ma – perché ci sia il trauma, il trauma inaugurale e fondante – l’apporto dell’Altro e l’incontro del soggetto con l’enigma del suo desiderio è un fattore causale imprescindibile; neppure le situazioni di spavento che possono colpirci, in forma di calamità naturali o sconvolgimenti sociali minacciosi, improvvisi o violenti (e sappiamo con quale senso di precarietà vi siamo tutti, oggi,ampiamente esposti ) sono – nel senso rigoroso della prospettiva psicoanalitica che ho appena tracciato – traumatici, anche se descrittivamente, fenomenicamente, li si definisce così. Ma lo shock non è il trauma.

CS pag. 69 – op. cit.

chiamiamo traumatica – scrive Freud – … una…situazione vissuta di inermità; abbiamo allora un buon motivo per distinguere la situazione traumatica dalla situazione di pericolo”.

“Le marche traumatiche sono le marche di questa inermità che sorge tra le esigenze pulsionali del bambino e le risposte dell’Altro” (C.Soler op. cit.)

Il trauma, nella misura in cui lascia un segno, una cicatrice indelebile nel soggetto, ha degli effetti importanti sul processo dell’identificazione, a livello simbolico, perché quel marchio che resta – singolare – unicizza il soggetto, lo strappa dall’anonimato – in senso psichico. Si potrebbe dire che è un buon segno – ai fini della cura – la pregnanza, la consistenza di una questione traumatica che un soggetto ci presenta – che lo sappia o no

– quando viene a consultarci ? Insomma che ci sia stato per lui/per lei, il suo trauma, in qualche modo almeno intravisto dal soggetto, oppure denunciato, come un’esperienza speciale? In generale, mi viene da rispondere di sì, sì perché lì insiste il senso della propria storia, c’è un punto di capitone, un nucleo di senso e di godimento che, in qualche modo, si è fissato e, soprattutto, alimenta la ripetizione, aldilà del principio di piacere.

“…il termine trauma sussume, per definizione, un incontro che non si presta né alla cancellazione né all’oblio, né allo spostamento metonimico, il quale assicura, al servizio del principio di piacere, la deriva delle pulsioni nel ritorno del rimosso o nella sublimazione. Possiamo chiederci come questa ferita, questa inermità originaria dimora in seguito nell’adulto? Essa è nella memoria, certamente. La memoria tormentata e sofferente che alimenta le lamentazioni dei nevrotici è una delle prime scoperte della psicoanalisi….l’isteria (diceva Freud) soffre di reminiscenze, reminiscenze spesso spostate in rapporto alla vera causa, a meno che non prendano la forma stessa dell’amnesia. Ma se non fosse che questo, se non fossero che reminiscenze! sono stati necessari a Freud trent’anni di lavoro perché giungesse alla conclusione che l’isteria soffriva di…ripetizione – e non è la sola, è il caso comune. Il trauma originario non si rimuove, dimora, perdura sotto forma della ripetizione in atto, nella vita amorosa e, soprattutto, nel transfert” (CS op. cit. pag.66/67)

All’inverso, nella pratica clinica capita talvolta di sentirsi piuttosto disorientati nell’ascoltare dei soggetti che ci appaiono…appunto, poco soggettivati, poco…traumatizzati, intendo dire debolmente e a volte per nulla affettati da una congiuntura traumatica della loro storia, a partire dall’infanzia, dalla quale si siano sentiti segnati. Ho in mente vari esempi, in cui il racconto della propria vita, cui il soggetto viene invitato, suona monocorde, poco animato da sussulti emotivi…e non emerge niente che rompa o interrompa una serie piuttosto indifferenziata di “fatti”, un ricordo, per esempio,…traumatico appunto… .Sono situazioni cliniche che mettono molto alla prova i mezzi del dispositivo analitico, perché presentano una particolare resistenza – a mio avviso – o impenetrabilità a quel processo di “istorizzazione” che è la molla stessa del lavoro analitico e del transfert.

Ritorno al concetto freudiano di trauma: a partire dal 1920, in “Aldilà del principio di piacere” Freud individua come traumatiche quelle situazioni di inermità in cui fallisce la regolazione del principio di piacere, è in scacco il meccanismo psichico detto di para- eccitazione “chiamiamo traumatici quegli eccitamenti che …sono abbastanza forti da spezzare lo scudo protettivo. Ritengo che il concetto di trauma implichi questa idea di una breccia in quella barriera protettiva che di regola respinge efficacemente gli stimoli dannosi…”

E’ evidente – in base a queste considerazioni di Freud – che il concetto di trauma, come lacerazione, effrazione, rinvia dialetticamente a quello di una omeostasi, di una sorta di “integrità” pretraumatica del soggetto bambino e non potrebbe concepirsi trauma de- strutturante se non sulla base di una condizione “sufficientemente buona” in senso umano, nel senso di quell’ambiente umano che circonda e accoglie il piccolo essere alla nascita e, soprattutto gli parla e gli risponde, infondendogli un gusto per la vita, donandogli la possibilità di desiderare e di inserirsi nel legame sociale. Colette Soler chiama “marche non traumatiche” quelle esperienze che “nell’infanzia” si sono fissate in modo benefico “delle quali non si soffre anche se ci restano impresse addosso” – anzi…costituiranno per sempre un bagaglio da portare con sé in qualunque altrove… si tratta scrive Soler di “…tutte le sensazioni del quotidiano..e tutto quello che appartiene al registro delle abitudini…includendo i rituali del corpo, le pratiche alimentari, igieniche ecc, tutto il rapporto con la realtà alla quale ci siamo adattati….in fondo tutto quello che forgia le preferenze proprie a ciascuno e che il soggetto condivide più o meno con una collettività, in altre parole i gusti individuali e collettivi (ossia)…tutte le pratiche insieme corporali e soggettive che costituiscono quelle che possiamo chiamare le sensibilità esistenziali”.. ” è sorprendente constatare fino a che punto….ognuno vi è attaccato come a sé stesso, senza neanche accorgersene, come se fosse del tutto naturale…questo registro, che come il trauma si fissa nell’infanzia , non produce tanto il dolore quanto il sentimento dell’identità, è il registro delle soddisfazioni regolate dal principio di piacere, sempre quindi omeostatiche, temperate. In fondo è con la nozione di discorso come ordine sociale che Lacan ha reso ragione di questi godimenti prodotti in ogni legame sociale, che non sono aldilà del principio di piacere e che costituiscono al contempo il sentimento di appartenenza sociale e di identità”

Si potrebbe parlare – in base a tutto ciò – di un’area “non traumatica”necessaria, essa stessa, non solo a garantire la sussistenza del bambino (primum vivere), ma anche ad assicurargli ciò che gli spetterebbe, come essere umano, in un mondo umano: almeno un piccolo kit per la sopravvivenza civile, un anche minimo corredo di quelle “soddisfazioni regolate dal principio di piacere…omeostatiche, temperate” di cui parla Colette Soler.

Non è quello che oggi sta succedendo, non è quello cui stiamo assistendo – forse sempre più distratti e assuefatti – ah! ancora un barcone affondato. ah si! Donne e bambini a bordo…di nuovo…ma quando finirà ?

Il trauma necessario, secondo le coordinate in cui la psicoanalisi lo inquadra e che ho cercato di tracciare diverrà, sempre più, un “ privilegio” per pochi ? Viene anche da domandarsi se una certa ossessione psicologica, pedagogica, di “evitare” “prevenire” possibili traumi ai propri figli – la cosa a volte assume aspetti grotteschi, mi sembra – non sia l’altra faccia di un diffuso e montante cinismo di fronte al sapere di una tragedia umana del quale proprio non si vuole sapere niente….E’ una situazione che, uno per uno, ma anche come collettività sociale, politica, culturale, ci esilia da un luogo che non è geografico e che non sarà di nessuno se non può essere – almeno potenzialmente – di tutti: l’umanità.

Accenno ad un’ultima questione, che si collega in un certo senso, a quanto appena detto: concepire il trauma come necessario – in senso strutturale – non esclude il fatto (reale) che c’è una responsabilità degli adulti e variazioni virtualmente infinite nei modi in cui essi, come piccoli altri – contingenti – (cito ancora Soler) “danno voce e corpo all’Altro maiuscolo…come luogo della struttura del linguaggio… luogo della parola di verità…l’Altro del discorso”

Per tutti vi è troumatisme, secondo Lacan, ossia un buco strutturale nel simbolico, perché il simbolico non può assorbire tutto il reale, né rispondere, nè sapere tutto sul godimento, ma poi le configurazioni traumatiche sono legate, principalmente, a tre ordini di fattori: le figure reali nella storia di ciascuno, gli incidenti di quella stessa storia e le risorse psichiche costitutive del soggetto, inconoscibili e imprevedibili, perfino da lui stesso, a volte, insondabili… un po’ poeticamente Lacan le ha chiamate “le armi che il soggetto riceve dalla natura”. Espressione molto vaga – a dire il vero – che evoca senza tuttavia specificarli dei mezzi difensivi con cui un soggetto risponde al reale che incontra, mezzi più o meno efficaci per reggere, per non soccombere, per trattare ciò che è, per definizione, l’impossibile.

“evidentemente (osserva CS) è un fattore sul quale non abbiamo presa e del quale possiamo solamente cercare di tenere conto”.

Pag.76 “ Quel che resta dell’infanzia”

“Questo potrebbe condurre all’idea di una sorta di disposizione individuale al trauma, variabile secondo gli individui, che sarebbero più o meno traumatizzabili. Essa è nel discorso attuale con il termine di resilienza cara a Boris Cyrulnik. Ed è vero che tutti gli individui non hanno la stessa capacità di incassare le circostanze contrarie ai propri auspici….”

Già Primo Levi – nell’opera “Se questo è un uomo” – aveva utilizzato il concetto di resilienza , scrivendo “La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente…si tratta di un prezioso lavorio di adattamento, in parte passivo e inconscio e in parte attivo”.

Queste operazioni umane complesse, segrete, minute ed eroiche al tempo stesso possono sembrare perfino miracolose per gli esiti che si possono a volte constatare, e quante testimonianze ce ne sono: l’essere umano può non solo sopravvivere, ma esaltare la sua stessa umanità a dispetto perfino di ciò che lo ha esiliato da essa… ed è vero anche il contrario – del resto – ossia che le circostanze più oggettivamente benevole e privilegiate non garantiscono alcun felice destino, né un buon uso di qualsivoglia dono della sorte; si tratta di processi soggettivi – come risposte di fronte al reale –, di “una insondabile decisione dell’essere”, forse, che Lacan mette in conto all’etica, da lui definita come “posizione in rapporto al reale” “della nostra posizione di soggetto siamo sempre responsabili” (J.Lacan“La scienza e la verità” – Scritti). “L’etica, per la psicoanalisi, è il modo con cui ciascuno risponde al destino che gli riserva l’inconscio, ossia al reale, a ciò che non dipende da nessuno, ma dal fatto di essere un corpo parlante”. (CS op. cit. pag.78)

Patrizia Gilli