Il trauma nella psicoanalisi

Giornata di apertura Icles del corso 2025

11/1/2025

Patrizia Gilli

Parto da questo titolo dei seminari di psicoanalisi, che presenta la parola e il concetto di trauma così, al singolare: perché? Perché non dire “i traumi”? E’ evidentemente una precisa scelta, che intende mettere a fuoco una questione fondamentale per la psicoanalisi, una questione che la  differenzia da ogni altra disciplina psicologica: il trauma è sempre singolare, per ciascun essere umano, parlante, ce ne è stato uno, uno solo, il suo, e – si può aggiungere – proprio grazie ad esso si è potuto  costituire il soggetto. Scrive Colette Soler (Quel che resta dell’infanzia pag.72) Non c’è alcuna figura universale del trauma costituente del parlessere…a livello della struttura le prime volte dell’infanzia sono per sempre…è quello che si ripete per un dato soggetto, ossia il suo trauma originario, che assicura la presenza del bambino unico che egli fu, nell’adulto.

Alla lettera la parola trauma significa “ferita”. Il dizionario ci offre questa definizione “turbamento dello stato emotivo prodotto da un avvenimento dotato di una notevole carica emotiva. In medicina: lesione prodotta nell’organismo da un agente capace di azione improvvisa, rapida e violenta”. Immaginariamente, l’idea di una ferita evoca un accidente esterno, che intacca l’interezza e l’incolumità di un qualunque essere, corporeo in primis,  e in effetti questo può avvenire, ma una  scoperta fondamentale di Freud, pietra miliare su cui l’edificio della sua teoria si andrà a costruire, è che l’agente traumatico può agire anche dall’interno, e che questo succeda è non una casualità, ma una regola, una regola che riguarda gli esseri umani in quanto sessuali e sessuati.

Vi riporto le parole di Freud: Le pretese pulsionali provenienti dall’interno, al pari degli eccitamenti del mondo esterno, agiscono alla stregua di traumi, particolarmente se ad essi vengono incontro determinate disposizioni a nessun essere umano vengono risparmiate tali esperienze traumatiche, nessuno è esente dalle rimozioni che esse provocano  (Compendio di psicoanalisi 1937 pag. 612 OP vol.XI).

Dunque c’è – e resta –  la cicatrice di una ferita originaria  che ha segnato il soggetto  rimanendo incisa, a livello inconscio, indelebile e determinante per il costituirsi della sua realtà psichica e per i destini  successivi della ripetizione.

Certo ci sono, per tutti gli esseri umani, eventi biografici che lasciano un segno, non solo e non tanto per una gravità intrinseca – benché questo fattore non sia trascurabile – quanto per le  risonanze psichiche  che determinano, legate al loro impatto sul fantasma  fondamentale, inconscio, del soggetto.

Può sorgere subito una domanda: dove e come possiamo situare – nella storia del soggetto – l’evento traumatico  e gli effetti che ne conseguono? Bisogna subito precisare una cosa, che inerisce all’approccio etico della psicoanalisi, e che ci orienta  sia nell’ascolto dei pazienti sia nella direzione della cura: il trauma non è un dato oggettivabile.

Ovviamente  ci sono  i fatti  (lutti, malattie , incidenti ecc..) oggettivi dunque, ma solo il soggetto (uno per uno) può dire cosa sia stato traumatico, in altri termini quale valenza, quale significato, quale propria interpretazione abbia dato ad un certo accadimento, ad un certo incontro con il reale. Nella lezione che Colette Soler ha svolto qui lo scorso settembre diceva la ferita è relativa all’investimento del percepito nel trauma. Queste parole innanzitutto chiamano in causa una partecipazione attiva, seppure inconscia, da parte del soggetto a ciò che diventerà il suo trauma e  poi ci dicono che non c’è una coincidenza puntuale tra l’evento traumatico e l’effetto/affetto traumatico. Quest’ultimo si configura piuttosto a posteriori, in apres-coup, quando qualcosa, nella vita del soggetto, riattiva ed attualizza quel primo tempo del trauma.

Avremo modo di sviscerare queste formulazioni che rinviano, è evidente, alla realtà fantasmatica del soggetto. Dire realtà fantasmatica non significa affatto sminuire o negare dei fatti accaduti (cfr.lezione CS), significa soggettivarli. Dire che il trauma è fantasmatico non ne riduce la forza, non significa dire che è debole. Non c’è nulla di più consistente del fantasma, sono gli occhiali che ciascuno ha per vedere  ciò che gli capita nella vita, è la singolarità del soggetto. Questo tema è cruciale, tanto da coincidere, in un certo senso, con l’invenzione stessa della psicoanalisi e la sua pratica da parte di Freud. Infatti, possiamo chiederci: quando Freud è diventato psicoanalista? La risposta, in un certo senso, è semplice: quando ha abbandonato due cose  – e lo dirà in modo esplicito in alcuni scritti – ha abbandonato la tecnica dell’ipnosi, come metodo di trattamento clinico delle nevrosi isteriche, e ha abbandonato la teoria della seduzione incestuosa, intesa come evento biografico, traumatico, subito – nella realtà – dalle sue pazienti.

Traggo queste sue parole dall’  “Autobiografia” (1924 –vol X pag.102): Quando in seguito mi vidi costretto a riconoscere che tali scene di seduzione non erano mai avvenute in realtà, ma erano solo fantasie create dall’immaginazione dei miei pazienti – e magari anche suggerite da me –rimasi per un certo periodo assai disorientato. La fiducia nella mia tecnica e nei suoi risultati subì un fiero colpo […] tuttavia una volta riavutomi, fui subito in grado di trarre dalla mia esperienza le giuste conclusioni : i sintomi nevrotici non erano collegati direttamente a episodi realmente avvenuti, ma piuttosto a fantasie di desiderio ; per la nevrosi la realtà psichica era più importante della realtà materiale.

Freud riconosce insomma la necessità di una scelta nella quale ad un certo punto si è venuto a trovare e confessa un piccolo trauma narcisistico, come studioso e come clinico. Dirà anche, a quel punto  non credo più ai miei nevrotici. C’è lì, per Freud, un radicale viraggio che avrà ricadute fondamentali per la teoria e per la pratica psicoanalitica, sul piano tecnico e sul piano etico.

Eppure, dicendo non credo più Freud fonda una nuova fiducia, incondizionata, rispetto alla verità del soggetto, che è unica, singolare e indimostrabile  perché non consiste tanto in un sapere sugli eventi della vita, ma giace, piuttosto, nel segreto della costruzione fantasmatica che ciascuno, inconsciamente ha elaborato, proprio per velare, per rendere a sé stesso sopportabile, vivibile, quel  nucleo di reale che è stato  e resterà traumatico, la ferita originaria.

Credo che mai come oggi la parola “ trauma” sia usata molto genericamente… e abusata! E’ perfino ridondante il continuo ampliarsi dell’inventario dei possibili traumi che minacciano (in famiglia, a scuola, al lavoro ecc.) l’equilibrio psico-fisico degli esseri umani. Ci si preoccupa di prevenirli o prevederli. I genitori, per esempio, hanno  paura di essere “traumatizzanti” per i loro figli e facilmente accusano altre istanze educative di esserlo, con esiti grotteschi e talvolta drammatici. E’ una paura forse nutrita da un certo “sapere” psicologico  e da una deriva paranoica del discorso. Mi sembra che spesso ne consegua, oltretutto, un effetto inibitorio rispetto all’atto, l’atto di  autorizzarsi ad educare i propri figli  prendendo, necessariamente, il rischio della propria mancanza e quello di affrontare un conflitto. E’ comunque un fenomeno della nostra attualità il gran parlare – in ambiti educativi, sociali, psicologici ,scolastici ecc. –  di “situazioni” dette o pre-dette che siano, traumatiche, al punto che tutto è facilmente e quasi sbrigativamente definito come “traumatico”, “traumatizzante”, ma facendo come si dice di ogni erba un fascio si entra, credo, in una grande confusione, a livello immaginario. 

Torno sulla  questione peculiare dell’approccio al trauma, nella psicoanalisi: esso è innanzitutto un fatto strutturale, fondativo per il costituirsi del soggetto infans nella sua dimensione umana, ossia nel suo rapporto con l’Altro.  Si può rovesciare la questione, considerando quale sia il destino di quegli esseri umani – e ce ne sono, basti pensare ai bambini autistici, il caso più estremo – che sfuggono all’esperienza del trauma. La loro cura, nell’orientamento della psicoanalisi, punta in un certo senso ad introdurre, nella bolla di un godimento chiuso all’Altro, impenetrabile alla presa del simbolico, qualche piccola, graduale, lacerazione, qualche scheggia  di trauma. Torno sul testo di Colette Soler  (Quel che resta dell’infanzia pag.62): L’espressione trauma infantile sottintende…che ogni bambino ha un trauma…un trauma che, a differenza di qualsiasi altro, non è accidentale. Freud descrive le esperienze traumatiche dell’infanzia nel testo Aldilà del principio di piacere 1920… e vediamo immediatamente che coinvolgono molto più che le eccitazioni pulsionali. Ci descrive una sorta di trauma del rapporto al grande Altro, nel quale la delusione è come programmata… un trauma che potremmo in qualche modo qualificare edipico. Freuddescrive un Altro che non potrà che deludere , in modo triplice, al contempo l’attesa dell’amore, l’esigenza del sapere sessuale, e l’aspirazione alla creazione. In fondo è il senza uscita della domanda che è traumatico.

Il trauma, insomma, è sempre una faccenda tra-umani, mi permetto questo gioco di parole. Le esigenze e gli eccitamenti pulsionali, come abbiamo visto, irrompono dall’interno, ma alla loro azione bisogna aggiungere un altro elemento cruciale, ossia l’apporto dell’Altro e l’incontro con l’enigma del suo desiderio.

Le situazioni di spavento che possono colpirci, in molteplici forme ( calamità naturali, incidenti ecc..) non  sono, nel senso rigoroso della prospettiva psicoanalitica,  traumatici, anche se descrittivamente, fenomenicamente, li si definisce così. Ma lo shock non è il trauma. Dice Colette Soler ( op cit. pag.69: chiamiamo traumatica – scrive Freud – … una…situazione vissuta di inermità; abbiamo allora un buon motivo per distinguere la situazione traumatica dalla situazione di pericolo. I marchi traumatici sono i marchi di questa inermità che sorge tre le esigenze pulsionali del bambino e le risposte dell’Altro.

Il trauma, nella misura in cui  lascia un segno, una cicatrice indelebile nel soggetto,  ha degli effetti importanti  sul processo dell’identificazione, a livello simbolico, perché quel marchio che resta, singolare, unicizza il soggetto, lo strappa  dall’ anonimato, in senso psichico. Si potrebbe dire che è un buon segno, ai fini di una cura, la pregnanza, la consistenza di una questione traumatica  che un soggetto ci presenta  quando viene a consultarci? Insomma che ci sia stato per lui/per lei, il suo trauma, in qualche modo almeno colto dal soggetto, denunciato, assunto come un’esperienza speciale? In generale, possiamo dire di sì, sì perché lì insiste il senso della propria storia, c’è  un nucleo di senso e di godimento che, in qualche modo, si è fissato e che  alimenta la ripetizione, aldilà del principio di piacere.  Cito ancora Colette Soler […] il termine trauma sussume, per definizione, un incontro che non si presta né alla cancellazione né all’oblio, né allo spostamento metonimico, il quale assicura , al servizio del principio di piacere, la deriva delle pulsioni nel ritorno del rimosso o nella sublimazione. Possiamo chiederci come questa ferita, questa inermità originaria persiste  in seguito nell’adulto? Essa è nella memoria, certamente. La memoria tormentata e sofferente che alimenta le lamentazioni dei nevrotici è una delle prime scoperte della psicoanalisi….l’isteria (diceva Freud) soffre di reminiscenze, reminiscenze spesso spostate in rapporto alla vera causa, a meno che non prendano la forma stessa dell’amnesia. Ma se non fosse che questo, se non fossero che reminiscenze ! sono stati necessari a Freud trent’anni di lavoro perché giungesse alla conclusione che l’isteria  soffriva di…ripetizione – e non è la sola, è il caso comune. Il trauma originario non si rimuove,resta , perdura sotto forma della ripetizione in atto, nella vita amorosa e, soprattutto, nel transfert” (CS op cit. pag.66/67).

All’inverso,  nella pratica clinica  capita talvolta di sentirsi  piuttosto disorientati nell’ ascoltare dei soggetti che ci appaiono, appunto, poco soggettivati, poco…traumatizzati, intendo dire debolmente e a volte per nulla  affetti da  un marchio   traumatico della loro storia, a partire dall’infanzia, dal quale si sentano segnati. Capita allora che il racconto  della propria vita, cui il soggetto viene invitato,  suoni monocorde, poco animato da sussulti emotivi e non emerge niente che rompa o interrompa una sequenza temporale  di “fatti”, un ricordo, per esempio, traumatico appunto.

Sono situazioni cliniche che mettono alla prova i mezzi del dispositivo analitico,  perché presentano una particolare refrattarietà a quel processo di  “istorizzazione”  (significante che congiunge isterizzazione e storicizzazione)  che è la molla stessa del lavoro analitico e del transfert. C’è una clinica di questi soggetti poco soggettivati, senza marchi traumatici, si parla di personalità come se, di debilità, di malattia della mentalità, di border-line ecc.

Qualche accenno ancora  al concetto freudiano di trauma: a partire dal 1920, in “Aldilà del principio di piacere” Freud individua come traumatiche quelle situazioni di inermità  in cui fallisce la regolazione del principio di piacere, è in scacco il meccanismo psichico detto di para-eccitazione “chiamiamo traumatici quegli eccitamenti che […] sono abbastanza forti da spezzare lo scudo protettivo. Ritengo che il concetto di trauma  implichi questa idea di una breccia in quella barriera protettiva che di regola respinge efficacemente gli stimoli dannosi […]”.

E’  evidente – in base a queste considerazioni di Freud – che il concetto di trauma, come lacerazione, effrazione,  rinvia dialetticamente a quello di una omeostasi, di una sorta di “integrità” pretraumatica  del soggetto bambino e, virtualmente, si può concepire un effetto  traumatico solo sulla base di una condizione “sufficientemente buona” in senso umano, cioè in quell’ambiente umano che circonda e accoglie il piccolo essere alla nascita offrendogli, attraverso le parole e gli atti di accudimento, la possibilità di attaccarsi alla vita e di entrare nel legame sociale.  Colette Soler chiama “marchi non traumatici” quelle esperienze che “nell’infanzia” si sono fissate in modo benefico  “delle quali non si soffre anche se ci restano impresse addosso”  – anzi, esse costituiranno per sempre un bagaglio da portare con sé .. si tratta scrive Soler  di […] tutte le sensazioni del quotidiano[…] e tutto quello che appartiene al registro delle abitudini […] includendo i rituali del corpo, le pratiche alimentari, igieniche ecc, tutto il rapporto con la realtà alla quale ci siamo adattati […] in fondo tutto quello che forgia le preferenze proprie a ciascuno e che il soggetto condivide più o meno con una collettività, in altre parole i gusti individuali e collettivi  (ossia) […] tutte le pratiche insieme corporali e soggettive  che costituiscono quelle che possiamo chiamare le sensibilità esistenziali” . […] è sorprendente  constatare fino a che punto […] ognuno vi è attaccato come a sé stesso, senza neanche accorgersene, come se fosse del tutto naturale […] questo registro, che come il trauma si fissa nell’infanzia , non produce tanto il dolore quanto il sentimento dell’identità, è il registro delle soddisfazioni regolate dal principio di piacere, sempre quindi omeostatiche, temperate. In fondo è con la nozione di discorso come ordine sociale che Lacan ha reso ragione di questi godimenti prodotti in ogni legame sociale, che non sono aldilà del principio di piacere e che costituiscono […] il sentimento di appartenenza sociale e di identità.

Si potrebbe parlare, in base a tutto ciò, di un’area “non traumatica” strutturale, essa stessa fondamentale, non solo per garantire la sussistenza del bambino – primum vivere – ma anche per assicurargli ciò che gli spetterebbe di diritto, come essere umano, in un mondo umano: chiamiamolo un piccolo kit per la sopravvivenza civile, un anche minimo corredo di quelle “soddisfazioni regolate dal principio di piacere… omeostatiche, temperate” di cui parla Colette Soler. Non è quello che oggi  sta succedendo, non è quello cui stiamo assistendo, forse sempre più distratti e assuefatti: ah ! ancora un barcone affondato… donne e bambini a bordo… di nuovo… stragi di innocenti sotto i missili… ma quando finirà?

Il trauma, secondo le coordinate in cui la psicoanalisi lo inquadra e che ho cercato di tracciare diverrà, sempre più, un “privilegio” per pochi?  Viene anche da domandarsi se una certa ossessione psicologica, pedagogica, perfino morbosa  di “evitare”, “prevenire” possibili traumi ai propri figli non sia l’altra faccia di un diffuso e montante cinismo di fronte al sapere di una tragedia umana che riguarda i figli degli altri e della quale  proprio non si vuole sapere niente. E’ una situazione che, uno per uno, ma anche come collettività sociale, politica, culturale, ci esilia da un luogo che non è geografico e che non sarà di nessuno se non può essere,  almeno potenzialmente,  di tutti: l’umanità.

Accenno ad un’ultima questione, che si collega in un certo senso, a quanto appena detto: concepire il trauma come  strutturale trasversale alle biografie particolari e costituente (CS lezione)  non esclude il fatto (reale) che c’è una responsabilità degli adulti  e variazioni virtualmente infinite nei modi in cui essi, come altri  contingenti  (cito ancora Soler) danno voce e corpo all’Altro maiuscolo […] come luogo della struttura del linguaggio […] luogo della parola di verità […] l’Altro del discorso.

Per tutti vi è troumatisme, secondo Lacan, ossia un buco strutturale nel simbolico, perché il simbolico non può assorbire tutto il reale, né rispondere, nè sapere tutto sul godimento, ma poi le configurazioni traumatiche sono legate, principalmente, a tre ordini di fattori  : le figure reali nella storia di ciascuno, gli incidenti di quella stessa storia e le risorse psichiche costitutive del soggetto, inconoscibili e imprevedibili, perfino da lui stesso,  insondabili… un po’ poeticamente Lacan le ha  chiamate le armi che il soggetto riceve dalla natura. Espressione molto vaga, che evoca, senza tuttavia specificarli,  degli strumenti difensivi con cui un soggetto risponde al reale che incontra, dei mezzi  più o meno efficaci per  reggere, per  non soccombere, per trattare  ciò che è, per definizione, l’impossibile. Si tratta come osserva Colette Soler di un fattore sul quale non abbiamo presa  e del quale possiamo  solamente cercare di tenere conto.

Cito (Pag.76 “ Quel che resta dell’infanzia”): Questo potrebbe condurre all’idea di una sorta di disposizione individuale  al trauma, variabile  secondo gli individui, che sarebbero più o meno traumatizzabili […]. ed è vero che non tutti gli individui  hanno la stessa capacità di incassare le circostanze contrarie ai propri auspici.

Già Primo Levi, nell’opera “Se questo è un uomo”, aveva utilizzato il concetto di resilienza , scrivendo : la facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente […] si tratta di un prezioso lavorio di adattamento, in parte passivo e inconscio e in parte attivo.

Queste operazioni psichiche complesse, segrete, banali  ed eroiche al tempo stesso possono sembrare perfino miracolose per gli esiti che si possono a volte constatare, e quante testimonianze ce ne sono: l’essere umano può non solo sopravvivere, ma esaltare la sua stessa umanità perfino a dispetto  di ciò che lo ha esiliato da essa; del resto  è vero anche il contrario, ossia che le circostanze oggettivamente più benevole e privilegiate non garantiscono a nessuno alcun felice destino, né un buon uso di qualsivoglia dono della sorte, non è certo la psicoanalisi ad averlo scoperto; si tratta, sempre, di processi soggettivi, di  risposte singolari di fronte al reale, forse  di una insondabile decisione dell’essere che Lacan mette in conto all’etica, da lui definita come posizione in rapporto al reale. Dice: della nostra posizione di soggetto siamo sempre responsabili (J.Lacan“La scienza e la verità” Scritti).

L’etica, per la psicoanalisi, è il modo con cui ciascuno risponde al destino che gli riserva l’inconscio, ossia al reale, a ciò che non dipende da nessuno,  ma dal fatto di essere un corpo parlante (Colette Soler op. cit. pag.78)

Pubblicato sul blog il 20/1/2025