Relazione di apertura Anno Accademico ICLeS – Mestre
L’argomento scelto per il lavoro del prossimo anno – che introduco e che oggi presenteremo sotto varie angolature – è Inibizione, atto, desiderio : difficoltà e risorse della cura.
Esso evoca subito – e volutamente – il titolo di uno scritto di Freud del 1925 (noto penso a tutti voi) ossia “Inibizione, sintomo, angoscia”. Sarà sicuramente un testo di riferimento per le nostre lezioni, forse quello fondamentale.
Cercherò di mettere a fuoco qualcosa su ciascuno di questi tre concetti e significanti, partendo dal primo, INIBIZIONE. Non è tuttavia una priorità in senso logico perché, volendo essere rigorosi, bisognerebbe partire dal DESIDERIO : infatti se non vi fosse all’origine un desiderio – un desiderio rimosso, che anima il soggetto, non vi sarebbero come (sua) conseguenza né l’inibizione, né l’atto . Tuttavia non è tanto in una prospettiva diacronica, quanto piuttosto nel loro annodamento topologico che dobbiamo affrontare questi concetti : il desiderio, infatti, si struttura grazie a quella rimozione originaria che, inibendo le vie di scarica immediata del bisogno, lo incanala, lo regola e lo rallenta lungo alcuni percorsi pulsionali. Così il fiume in piena del bisogno trova degli sbarramenti, delle dighe : è l’intervento dell’Altro, come istanza simbolica, che introduce questa operazione, ossia il processo di umanizzazione dell’essere umano.
In ogni caso, possiamo dire e verificare nella clinica che questi sono due possibili destini del desiderio, alternanti e molto variegati nelle loro forme singolari e sintomatiche : l’inibizione è una risposta dell’Io al presentificarsi del desiderio, l’atto è un’altra risposta, e la diversità radicale tra esse attiene agli effetti e alle ricadute che si producono per il soggetto. Mortificato nella /dalla inibizione, vivificato nell’atto e da esso.
Intendiamo infatti l’atto come un concretizzarsi dell’intenzione , un autorizzarsi del soggetto rispetto al proprio desiderio, un momento logico in cui cade l’Altro immaginario – l’altro del permesso, del giudizio ecc.- .
Il soggetto si arrischia, si tuffa nel reale, affronta l’impedimento immaginario, compie un passo che va oltre…
Sintetizzando molto, si può dire che è tutto il percorso di un’analisi, è quanto ci si attende che avvenga grazie ad essa : l’uscita dall’ inibizione attraverso l’atto, non una azione qualunque, non la ripetizione della stessa azione, ma un atto nuovo, consono, un atto istituente per il soggetto, un atto che testimonia, innanzitutto a lui stesso, una propria possibilità di presenza e di presa nel mondo, un atto che lo affranca – anche solo per un momento – dalla sua alienazione all’Altro.
Penso che l’inibizione stia alle difficoltà della cura come l’atto sta alle sue risorse.
La questione è complessa poiché l’etica della cura esige che lo psicoanalista si interroghi non solo sul soggetto che incontra e che ascolta, ma anche e assiduamente, sul proprio operare e i propri interventi, non dando niente per scontato, né sul piano del sapere né su quello dell’esperienza. Se ci si mantiene sull’asse dell’etica – perciò di quella onestà nella clinica che Freud ha insegnato – ci si può accorgere, a volte, che una nostra propria inibizione all’atto, un cedimento del nostro desiderio ostacolano lo svolgimento di una cura o i progressi di essa.
Luis Izcovich nel testo “ Il corpo e i sembianti (p.53)” dice “…il desiderio dell’analista può determinare il desiderio del soggetto. Lacan si interessa al desiderio dell’analista nel senso in cui esso costituisce l’elemento determinante del divenire del desiderio del soggetto nell’esperienza analitica e per indicare che esso costituisce l’asse essenziale da mantenere nell’analisi, ossia l’asse del transfert”.
E’ comunque un dato di fatto che veniamo spesso consultati da qualcuno a partire da una condizione avvertita e patita dal soggetto come inibizione: lo spettro delle sfumature è ampio e diversamente gravi sono le declinazioni sintomatiche, anche a seconda della struttura. Da un senso vago o diffuso di inerzia (sono apatico…), a un senso di vuoto, disinteresse, mancanza di entusiasmo ( non ho voglia di fare….non c’è niente che mi prenda…..tanto… a cosa serve?…) a un senso di paralisi fisica ( non ci riesco…so che dovrei…è più forte di me…) di blocco e perfino di panico nel trovarsi – o anche solo immaginarsi – alle prese con situazioni temute, che significano – spesso – il compimento di un passo decisivo nel proprio progetto di vita : l’esame, la laurea, sposarsi ecc…. insomma una qualche conclusione, un passaggio simbolico. Il soggetto arretra, evita, rinvia….In generale, nella nevrosi – Lacan lo dice – l’inibizione è la“segnaletica”, la spia del desiderio, che risulta così occultato, ma al tempo stesso si lascia intravvedere.
Questa è del resto l’indicazione di Freud, non ce ne discostiamo : le funzioni inibite sono quelle (più) sessualizzate dal soggetto – con Lacan diremmo fallicizzate – insomma quelle a cui, come si dice, tiene di più : (Freud vol X pag.239 – “Inibizione sintomo angoscia”)
“L’inibizione esprime una restrizione di una funzione dell’Io, e tale restrizione può avere essa stessa cause molto diverse. Alcuni dei meccanismi di questa RINUNZIA a una funzione… ci sono ben noti” (Ibid) “…dato che l’inibizione, concettualmente, è legata in modo intimo alla funzione può venire l’idea che sia utile studiare le diverse funzioni dell’Io, per vedere in quale modo si manifesti il loro disturbo… scegliamo, per questo studio comparato, la funzione sessuale, il mangiare, la locomozione e il lavoro professionale”
Come vedete, l’elencazione di Freud è piuttosto stringata e la sua attualità è – a mio avviso – indiscutibile visto che queste continuano ad essere, diciamo, le funzioni vitali che più tipicamente si alterano nella malattia nevrotica, la clinica lo testimonia.
In questa stasi e chiusura all’Altro che l’inibizione realizza, per evitare l’angoscia, e che è il contrario di un movimento, di una mobilitazione verso il sapere, c’è un paradosso, che Freud aveva ben presto colto, del quale il soggetto può restare a lungo inconsapevole, ossia che il risparmiarsi rispetto al fare comporta comunque – nell’economia psichica – un dispendio di energie notevole, a volte addirittura enorme. Non si capirebbe altrimenti perché la cosiddetta apatia lamentata dai soggetti si accompagni ad un senso di affaticamento pressoché costante.
Si potrebbe ipotizzare allora che molti quadri depressivi, (parlo di quadri nevrotici non delle melanconie psicotiche) così numerosi oggi – da un punto di vista fenomenologico e descrittivo, così psicologizzati, così medicalizzati – si rivelino, quando andiamo ad approfondire l’analisi strutturale, altrettante posizioni di inibizione? intendo dire situazioni psichiche di arroccamento del soggetto nel dire no al desiderio dell’Altro, ed è allora lì in atto l’inibizione…al posto di un atto.
A livello immaginario, l’arroccamento difensivo sembra preferibile alla vertigine dell’atto. Perché?
In fondo, credo, perché nell’atto si è sempre soli, soli nel rischio, sul piano reale, mentre –potremmo dire – nell’inibizione si è sempre in compagnia del rischio, sul piano immaginario. Consciamente o no, questo è un sapere con il quale fare i conti.
Mi pongo – e vi pongo – una questione : oggi, questa difficoltà singolare e soggettiva dell’atto, umana – irriducibilmente e per fortuna umana poiché è un fatto strutturale – è svilita (nella nostra cultura e società) dal predominare di un discorso che inneggia piuttosto alla dis-inibizione negli usi e nei costumi, al disinvolto oltrepassamento del margine tra ciò che è privato e ciò che è pubblico ? o meglio vige l’imperativo – esplicito o implicito – di esternare, condividere (!) – connettersi sempre ! – ovunque e il più estesamente possibile le comuni faccende della vita, perfino di prestarsi, nel risucchio di YouTube, a dare in pasto all’Altro il proprio essere più intimo e segreto. Parlare di inibizione può suonare strano, oggi, come riesumare un’anticaglia della psicoanalisi.
Tuttavia…..
Tuttavia sappiamo che parlare non è dire : sono atti diversi, non si equivalgono né per il costo né per la valenza che hanno, non convergono rispetto agli obbiettivi, perfino possono essere antitetici… La psicoanalisi mostra che tante parole vuote possono riempire, con il godimento che garantiscono, lo spazio e il tempo per non dire – veramente – qualcosa. Il dire è atto, atto di parola e implica – come ogni altro atto che impegni il desiderio del soggetto – una responsabilità reale, non condivisibile.
Un’altra considerazione : incarnare – nella pratica clinica attuale… e futura – con i nostri pazienti, questo elemento di contrasto al saldo cinico del discorso del capitalista ( e del post-capitalista) è un’impresa ardua per ciascuno perché, ovviamente, tutti vi siamo invischiati . Uno per uno, questa è la sfida – oggi secondo me particolarmente impegnativa – al desiderio dello psicoanalista.
Porto un breve frammento clinico, a mio avviso un esempio pertinente. Un giovane paziente – poco più che ventenne – tempo fa, mi parlava con un tono di rassegnazione, come spento, ma a volte quasi sprezzante, del lavoro che stava svolgendo ; lo svolgeva male e lo sapeva ( “faccio casino, gli altri si arrabbiano…” ), ma del resto non gliene importava niente, quel lavoro non lo interessava affatto, anzi era proprio “uno schifo di lavoro” “i colleghi dei deficienti” Ma certo… “piuttosto che niente…oggi come oggi bisogna adattarsi, vero?” “c’è la crisi…” “sui soldi non ci si può sputare sopra..”ecc.
Queste frasi, e altre dello stesso tenore, suonavano piuttosto stereotipate, formule discorsive vuote di soggettività, pura denuncia di uno stato delle cose contingente, eco lamentosa – seppur fondata – del discorso comune. Non obietto, e ovviamente non ho obiettato al fondamento realistico di quelle considerazioni. La crisi era ed è un reale e anche drammatico, ma il punto è un altro: l’oggettivazione del reale (reificazione) non porta da nessuna parte, se non a subire quello stesso reale nel quale si suppone o si liquida la causa , dimettendosi così, come singolo soggetto, dalla causa del proprio desiderio. La psicoanalisi non può farsi complice di questa deriva, cerca piuttosto di contrastarla, ovvero di bucare il godimento nevrotico.
In ogni caso…erano parole sue, quelle ? come stava parlando e di cosa , senza dire o per non arrivare a un dire di sè ? E poi quel suo intercalare, “vero…?” che non interrogava veramente l’Altro, ma sembrava dare come per scontata la sua solidale comprensione, mi metteva particolarmente in allerta e mi evocava in tutta la sua portata, in tutta la sua valenza operativa, quell’esortazione di Lacan – tanto spesso citata _ “guardatevi dal comprendere, se comprendete siete fottuti”. La comprensione, essendo chiusura sul senso, ha, a breve o a lungo termine, un effetto depressivo, nell’analisi… del resto anche fuori di essa. (Ciò che consola talvolta anche deprime, sono come le due facce di una banda di Moebius). Comprenderlo – in quel caso – perché c’era la crisi, non lo avrebbe aiutato ad aprire una sua propria crisi, a strappare dalle sue proprie questioni il rivestimento del significante universale, buono per tutti.
L’attenzione fluttuante, nell’ascoltarlo, mi aveva richiamato – a un certo punto – le parole di una poesia di Italo Calvino, che si intitola “Oltre il ponte”, un verso dice “a vent’anni la vita è oltre il ponte”. Qual’era allora, per quel soggetto, il suo ponte ? Posso dire, senza entrare nei dettagli adesso, che il lavoro analitico ha permesso a poco a poco di individuarlo, quel ponte, e di muoversi in quella direzione, ma credo sia questa, in generale, la questione analitica che in ciascun caso si pone. Ma, per arrivarci, è il desiderio dell’analista che può fare da ponte, quando sorge e si connota nella cura come ciò che può spingere il soggetto ad uscire dalla simmetria immaginaria, dal luogo comune che per tutti fa da recinto, un rassicurante e deprimente recinto nel quale siamo ricondotti nel gregge dove la singolarità del nostro essere è, se non abolita, quantomeno mortificata.
Chiudo con un pensiero tratto da Nietzche “ La gaia scienza”
“No. La vita non mi ha disilluso. Di anno in anno la trovo sempre più ricca, più desiderabile e più misteriosa – da quel giorno in cui venne a me il grande liberatore, quel pensiero che la vita potrebbe essere un esperimento di chi è volto alla conoscenza – e non un dovere, non una fatalità, non una fede….la vita come mezzo di conoscenza. Con questo principio nel cuore si può non soltanto valorosamente, ma anche gioiosamente vivere – e gioiosamente ridere”
Patrizia Gilli