Rispetto al tema di questa serie di lezioni (“l’identificazione al sintomo”) non mi è stato chiesto di lavorare su un testo specifico, ma di pensare a cosa avrei potuto cercare di approfondire, interrogare, articolare. Quello che seguirà, è l’esito del percorso che ho seguito e che è partito da un fatto piuttosto banale: il ripresentarsi alla memoria di fronte ad una libertà così ampia nella scelta, del testo di Freud del 1924 “La perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi”, che avevo incontrato qualche mese prima in un cartel. Qual era il nesso in quel momento non lo sapevo, ma a posteriori mi ritrovo a dire che cercare di trovare o ritrovare questo nesso nei testi e nel confronto con altre persone mi è stato veramente utile, non solo perchè mi ha dato occasione di leggere e approfondire, ma anche perché mi ha aiutato a interrogarmi diversamente nel mio lavoro, in particolare rispetto a un caso di cui cercherò di articolare qualcosa più avanti. Ringrazio quindi sentitamente per la possibilità che mi è stata offerta, che mi ha consentito di sperimentare concretamente quanto il trovarsi a lavorare a qualcosa (un tema, un testo…) per presentarlo ad altri, possa mettere al lavoro, quanto questo sia prezioso nel rinnovare interesse, curiosità ed anche un piacere, che a sorpresa fa capolino nel mezzo del lavoro. Mi scopro alla fine forse non soddisfatta del prodotto, ma certamente soddisfatta di quello che mi ha lasciato.
Partirò dal testo di Freud, integrandolo e commentandolo attraverso qualcosa del Seminario III e V di Lacan, per poi arrivare al caso. Introdurrei però il lavoro di oggi, a partire da qualcosa che ha esposto la dott.ssa Davanzo dell’ultima lezione, perchè a posteriori mi è parso poter costituire una traccia rispetto al mio percorso e che io stessa ho usato in questo senso per rivedere queste pagine. Mi soffermo perciò su due punti della sua lezione:
- il simbolico come buco, e il il sintomo, fatto di parole, come buco. Ad esempio una canzone che riesca a pacificare un bambino piccolo fa buco, perché mostra che qualcosa non va.
- l’identificazione al sintomo come uscita dell’analisi ha a che fare con un riconoscimento di identità rispetto a qualcosa che torna, con un’identificazione a qualcosa che è racchiuso nel sintomo, cioè è identificazione ad una modalità di godimento che vi è racchiusa, non al sintomo in quanto tale.
In entrambe queste sottolineature mi pare si ponga in evidenza il sintomo come qualcosa di racchiudente, includente un godimento, un reale non dicibile, da trattare. Credo che sia questo punto ciò attorno a cui ho lavorato, ho lavorato cioè attorno al valore di “rivestimento”, “contorno”, “ancoraggio” che il sintomo può avere in rapporto al reale del godimento, che non si può dire, ma che si scrive. Certamente il modo con cui si ha a che fare con il godimento è diverso da soggetto a soggetto, ed è diverso in particolar modo tra nevrosi e psicosi, tanto è vero che allucinazione e delirio non sono da considerarsi per Lacan dei “sintomi” in senso proprio e Freud era dello stesso parere. Già nel caso del Presidente Schreber, Freud precisa infatti che tutta la produzione di cui nelle Memorie Schreber ci dà testimonianza, non è da ritenersi sintomo di malattia, ma al contrario un tentativo di guarigione, una ricostruzione e per di più efficace, tanto da essere ciò che gli consente di uscire dallo stato catatonico, di riprendere a parlare, di scrivere, ecc. Partiamo allora rispetto al nostro percorso dal testo di Freud del 1924, in cui si articola qualcosa di questa differenza di trattamento della realtà e del reale tra nevrosi e psicosi.
In “La perdita di realtà nella nevrosi e nella psicosi” Freud cerca di rendere conto di un problema clinico e teorico insieme: come mai anche nella nevrosi si osserva con frequenza una perdita di realtà, sebbene la rimozione si ponga come uno strapotere dell’Io sull’Es a vantaggio proprio della realtà? Nei nevrotici è infatti abbastanza frequente osservare un allontanamento del soggetto dalla vita reale, un ripiegarsi sul sintomo, che può arrivare fino alla vera e propria fuga. Sebbene quindi per la nevrosi non si possa parlare di un disturbo del senso di realtà o del principio di realtà, nondimeno vi è una perdita, il cui originarsi è da spiegare. Diverso è per la psicosi, rispetto alla quale ci si attende invece una perdita di realtà, dato che essa origina proprio da un ritiro della libido dalla realtà sull’Io. Perchè dunque avviene una perdita di realtà anche nella nevrosi?
Freud lo spiega dicendo che si tratta di una contraddizione solo apparente: la nevrosi non sorge infatti dalla rimozione in sé stessa, ma dallo scacco della rimozione, dal suo non funzionare pienamente, a cui va imputato il disturbo e anche la perdita di realtà che da lì si origina e che ci si ritrova ad osservare. La rimozione non riuscita appieno, produce il ritorno del rimosso e la formazione di un sintomo, da cui prende le mosse il ritiro dalla vita reale. Per spiegare meglio questo passaggio, Freud riprende il caso di Elizabeth von R., di cui aveva parlato negli Studi sull’Isteria. La formazione del sintomo dipende qui -per Freud- dal tentativo di rimozione mal riuscito di un pensiero, che la paziente ha fatto fugacemente sul cognato nel momento della malattia della sorella:“Adesso puoi diventare mio marito”. E’ lo scacco della rimozione di questo pensiero che ha determinato i dolori che sente alle gambe, e non la rimozione in sé stessa, ci spiega Freud. Dice poi: “essa svalorizza il mutamento prodottosi nella realtà, rimuovendo la pretesa pulsionale che si è fatta innanzi (in questo caso l’amore per il cognato). La reazione psicotica sarebbe stata invece quella di rinnegare la morte della sorella”. Sarebbe a dire che questo qualcosa di intollerabile della pulsione è stato rimosso, ma non riuscendo a rimanere tale è tornato in seguito in altra forma e cioè in sintomi, che hanno allontanato Elizabeth non più solo dal pensiero fatto, ma anche dalla realtà, dalla vita reale (da un altro amore ad esempio) giacché la costringono a cure lunghe, di poco sollievo, che assorbono gran parte del suo tempo e dei suoi interessi. Nella psicosi, dice Freud, non si sarebbe osservato questo, ma altro: l’inaccettabilità della pretesa pulsionale avrebbe portato infatti a un rinnegare la realtà non della pretesa pulsionale, ma della morte stessa della sorella. Già qui qualcosa si mostra rispetto al nostro tema: è qualcosa di un reale che sta in quel pensiero che produce la necessità di rimuovere o rinnegare, è cioè qualcosa di un godimento che lì si mostra e con in quale si è alle prese.
Proseguendo con Freud, passiamo ora ad un confronto più approfondito tra psicosi e nevrosi. Come già abbiamo visto, mentre la nevrosi “rimuove” qualcosa delle rappresentazioni del soggetto, la psicosi “rinnega” invece il fatto accaduto, ma a partire da questa fondamentale differenza Freud scopre delle analogie. Infatti non solo la nevrosi si forma in due stadi (rimozione e ritorno del rimosso), ma la stessa struttura in due tempi, in due stadi, si può trovare anche nella psicosi: il primo stadio corrisponde al rinnegare qualcosa, mentre il secondo alla formazione di una nuova realtà, che va a compensare la perdita subita. In entrambe le strutture si delinea quindi non solo una formazione in due tempi, ma anche la necessità di una compensazione del danno subito: dall’Es nella nevrosi e dalla realtà nella psicosi. Infine Freud rileva che entrambe le strutture hanno a che fare con un desiderio di potenza dell’Es, che non si piega alla realtà: è per questo in fondo che una perdita di realtà, seppur qualitativamente molto diversa, si osserva in entrambe.
Freud da queste osservazioni, ne conclude che “Nevrosi e psicosi sono entrambe espressione della ribellione dell’Es contro il mondo esterno o, se preferite, della sua incapacità di adattarsi alla dura realtà, all’Ananke [necessità]. Nevrosi e psicosi si differenziano in modo più netto nella reazione iniziale di partenza che non in quella successiva, che rappresenta un tentativo di riparazione”. Intendo questa frase di Freud come un dirci che è qualcosa che ha che fare con una difficoltà scritta nella nostra stessa condizione umana, quella con cui nevrosi e psicosi si incontrano, un difficoltà di rapporto con la dura realtà e forse anche con il reale.
Mi pare una sottolineatura importante da parte di Freud, che Lacan ci permette senz’altro di capire meglio, nel momento in cui articola il Nome-del-Padre, fuorcluso nella psicosi e che fa metafora invece nella nevrosi, come qualcosa che riveste un’importanza fondamentale. La scoperta freudiana dell’Edipo rivela infatti per Lacan nel Seminario V non solo la centralità della sessualità nella formazione del soggetto, ma anche la necessità per il linguaggio, per la Legge che orienta e disorienta detta sessualità, di fondarsi su qualcosa. Lacan, riprendendo Bateson, precisa infatti che il problema di linguaggio del doppio-legame rilevato dai sistemici, pone a loro stessi in fondo proprio questa questione: che cosa nel linguaggio fa sì che esso si sostenga? Che cosa fonda “la parola in quanto vera”? Ed in effetti nel doppio-legame si è in presenza proprio della mancanza di un fondamento, per questo il linguaggio va da solo, indifferente rispetto all’impossibilità per il soggetto di adeguarsi da un lato della questione, senza disattendere necessariamente l’altro: nel famoso esempio se si sceglie infatti una delle due cravatte regalate dalla mamma, ella penserà che l’altra non è piaciuta, se non se mette nessuna che non sono piaciute entrambe, e se si indossano entrambe non potrà che esserci impressione di follia.
Da qui Lacan parte per un’articolazione particolareggiata della metafora paterna, in cui non mi addentro più di tanto, se non per porre l’attenzione sul fatto che Lacan la apre a partire da questo: dal fatto che il linguaggio, la legge e la possibilità da qui che il soggetto giunga a far la sua parte come uomo o come donna, non si sostiene affatto da sé, ma a partire da un’operazione che la instaura. Nella sua rilettura, Lacan ci sottolinea cioè che la scoperta di Freud è la scoperta di una quota di difficoltà, di vuoto, di mancanza che è sottesa tanto al linguaggio, quanto al sessuale. Lo diceva diversamente anche nel Sem III in cui per introdurre il tema della psicosi e della direzione della cura nella psicosi, Lacan precisa innanzitutto una cosa, ossia che nelle faccende umane niente è naturale, niente va da sé. Ad esemplificare in modo semplice quest’affermazione, Lacan riporta un’osservazione piuttosto comune sui bambini: un bambino che riceva uno schiaffo, non necessariamente piange, non piange in ogni caso, e questo dipenderà anche dalla reazione che gli adulti mostreranno e da che parole diranno. “Uno schiaffo” fa piangere un bambino insomma se è così che viene nominato, e a dirla tutta non è sufficiente ancora, dato che Lacan ci ricorda che in fondo potrebbe anche rispondere “Picchia, ma ascolta”. Quella di Lacan è qui forse una battuta, ma attraverso la quale pare voler attirare l’attenzione sul rovescio di questo dato di innaturalità: prendendola dal lato opposto, ovvero dal lato del soggetto, ci indica che se è vero che niente nell’umano è naturale e che questo può esser fonte di un’estrema sofferenza, come la psicosi abbondantemente ci testimonia, così è anche vero che è da questo lato che qualcosa ci può venire in soccorso. Infatti: se niente nel linguaggio e nell’umano va da sé, il soggetto ha sempre allora qualche possibilità sorprendente di prenderlo da un altro versante, di dire ad esempio e sorprendentemente “Picchia, ma ascolta”.
Tornando a Freud è allora forse importante rileggere la frase sulla “ribellione dell’Es” rispetto alla realtà nella nevrosi e nella psicosi, alla luce di questo dato di “innaturalità” a cui allude Lacan, alla luce cioè di un considerare che la realtà per l’umano, interna ed esterna, non va da sé.
Nel suo testo Freud prosegue rilevando che l’ allucinazione e il delirio diventano necessari nella psicosi, perchè dal rinnegare qualcosa della realtà nasce la necessità di riaccordarne la rappresentazione psichica. E’ però sorprendente che questo riaccordare non sia qualcosa di rasserenante, ma al contrario allucinazione e delirio si mostrino come penosi, angosciosi, opprimenti il soggetto e per Freud questo va considerato come “un indice del fatto che l’intero processo si svolge contro forze che gli si oppongono strenuamente”. Così come nella nevrosi il riattivarsi della pulsione comporta angoscia e così come non vi si osserva mai un vero soddisfacimento come esito del conflitto, altrettanto nella psicosi qualcosa spinge perchè la formazione di una nuova realtà porti con sé nuovamente dell’angoscia. Freud ne conclude che “presumibilmente nella psicosi la parte della realtà che è stata rigettata torna continuamente a imporsi, così come fa nella nevrosi la pulsione rimossa”. Lacan più chiaramente dice che ciò che è stato fuorcluso, non ritorna nel sintomo ma riappare nel reale.
In entrambi i casi possiamo allora dire che vi è quindi un parziale fallimento dell’operazione: in un caso perchè il rimpiazzamento della realtà non è soddisfacente, nell’altro perchè la pulsione rimossa non trova un vero e proprio sostituto. E’ a causa di questa parzialità anche della soluzione nevrotica, che il soggetto tende a rifugiarsi nella fantasia, un mondo protetto non inaccessibile all’Io ma con il quale la stretta delle sue esigenze è più labile. Da questo, dalla fantasia, che Freud chiama “scrigno”, si trae il materiale per la formazione di una realtà sia per la nevrosi che per la psicosi, però solo in questo secondo caso la fantasia può prendere letteralmente il posto della realtà.
Freud rileva perciò solo alla fine che ciò permette alla nevrosi di non alienarsi completamente dalla realtà, di non aver bisogno di costruire una realtà nuova, ma di limitarsi eventualmente a fantasticarla, è proprio il sintomo. E’ questo qualcosa di un ritorno in un punto preciso, contornato, che consente al nevrotico di “schivare” quella parte di realtà inaccettabile, di poter quindi accontentarsi di allontanarsene, di rinchiudersi eventualmente nella fantasticheria, senza bisogno di rinnegare, senza che qualcosa riappaia angosciosamente, in una voce ad esempio. Mi pare che sia questo il punto che mi ha condotto a voler parlare di questo testo in rapporto al sintomo, ovvero il punto in cui Freud riconosce il sintomo come qualcosa di importante perchè àncora il soggetto rispetto a qualcosa, perchè consente al nevrotico di aver a che fare meno brutalmente con quel qualcosa che alla psicosi riappare nel reale. E in questo testo si è anche visto, come già in Freud fosse chiaro che quello che è inaccettabile, non è tanto o non solo ciò che accade nella realtà, ma al contrario il modo in cui il soggetto vi risponde in termini di pensieri, dell’attivarsi della pulsione, di qualcosa del reale e del corpo che compare.
Ma vediamo ora qualcosa di Lacan. Nel sem. V e, guarda caso, proprio a partire dal caso di Elizabeth von R, Lacan dedica una lezione al sintomo e la titola “Le maschere del sintomo”. Apre la lezione a partire dalla questione del desiderio per come ce lo mostra la psicoanalisi, ovvero dal suo lato problematico, anomalo, aporetico: è un desiderio che appare infatti vagabondo, sfuggente, inafferrabile, che non si estingue nel puro rapporto con l’oggetto, pur implicandolo. Il desiderio, per prendere l’esempio del sogno come realizzazione di un desiderio, si mostra infatti per il Lacan di questo seminario come qualcosa di legato alla sua apparenza, ad una maschera, giacchè nel sogno si tratta sì di una soddisfazione, ma di “una soddisfazione al rovescio” (pensiamo ad esempio ai sogni di angoscia). Anche il sintomo per Lacan è concepibile come qualcosa che si presenta sotto una maschera, sotto la forma cioè di qualcosa di paradossale. Vediamo in che senso.
Lacan comincia facendo notare qualcosa rispetto alla direzione di cura di Freud nel caso di Elizabeth von R.: le sue interpretazioni ci appaiono (lo apparivano già a Lacan e figuriamoci oggi) da un lato come estremamente direttive, dall’altro come interpretazioni a lato. Freud dirige infatti la cura nel senso di portare la paziente a riconoscere nei suoi “dolori” qualcosa di un suo desiderio di diventar moglie e in particolare moglie del cognato, e ritiene a tal punto che questa sia la direzione da seguire, da chiedere di parlare con la madre di Elizabeth per sapere se una soluzione in questo senso fosse concretamente possibile. Decisamente questo oggi ci appare eccessivo da un lato e non proprio cogliere il punto dall’altro, ma Lacan ci fa andare oltre notare quest’apparenza. Egli fa notare che oggi senza dubbio non possiamo più permetterci interpretazioni di questo tipo, ma che questo accade perchè siamo in un altro tempo e che all’epoca quelle interpretazioni in realtà erano state efficaci, -parole sue- “dovevano esser fatte” perchè ciò che in esse si esprimeva era un non-detto ed è in questo che si situa il loro valore. Vale a dire che una volta di più Lacan ci ricorda di considerare non solo ciò che viene detto nell’interpretazione, ma di tener conto anche di altro, della posizione da cui viene detto, che ha a che fare con un tempo, una cura, una storia della persona e della cura, e soprattutto con una “x che sta al di là”, che appare rispetto a qualcosa di chiuso nel dire del soggetto e nel sintomo. Freud in quelle interpretazioni, così come in quelle che fa a Dora sul sig.K, dice cioè qualcosa che all’epoca non andava affatto nella direzione di rettificare il modo di intendere il mondo delle sue pazienti, né le indirizzava verso una supposta maturità genitale accettata dalla società: in fondo né per Dora sarebbe andato così da sé che passasse la sua vita con il sig.K, nè per Elizabeth sarebbe stato normale sposarsi con suo cognato. Freud, a leggerlo attraverso Lacan, non si era quindi affatto indirizzato verso qualcosa di normalizzante o rettificante rispetto al sociale, ma rispetto a qualcos’altro del soggetto che nei sintomi si mostrava. Vale a dire che c’è qualcosa che sta al di là, che in questo momento del suo insegnamento è per Lacan il desiderio inconscio, che non può che essere espresso se non in una forma problematica, ambigua, sfuggente, che è lì e non lì, che si intravede, ma che pur mascherandosi ha a che fare con qualcosa dell’ “ordine della verità”.
Poco dopo Lacan afferma “Chiamo qui sintomo, nel suo senso più generale, sia il sintomo morboso, sia il sogno e qualsiasi altra cosa analizzabile. Ovvero chiamo sintomo, ciò che è analizzabile”. Lacan chiama cioè qui sintomo qualunque cosa si presti per quel soggetto a mostrare, pur velando al contempo, qualcosa di un al di là e qualcosa della sua verità. Ed in questa affermazione mi pare possiamo anche cogliere un’indicazione: quella di attenerci al fatto che è sintomo qualunque cosa in cui si mostri questa x, ma che lo possiamo dire “sintomo” solo se è analizzabile, solo in quanto apre ad un lavoro per quel determinato soggetto.
Da qui Lacan riprende più puntualmente il caso di Elizabeth, usandolo come esempio per articolare il problema del sintomo e del desiderio inconscio. Parte dalla costituzione del sintomo, precisando che i dolori si sono costruiti come sintomo, a partire non da una, ma da una serie di esperienze di cura e di devozione ad un malato (il padre, la sorella..), e sottolineando come sia frequente per l’isterica che questo tipo di esperienza esiti in un sintomo. Ciò che è interessante è però che questa esperienza non produce un sintomo, non è isterogena per Lacan, in quanto dolorosa, in quanto sofferente, in quanto traumatica in sé, ma perché invece in questa sottomissione totale alla domanda dell’altro che il soggetto sperimenta, vi intravede al rovescio una situazione di desiderio. Già Freud aveva notato qualcosa di questo nel caso di Elizabeth: in Studi sull’Isteria precisa infatti che rispetto al racconto dei drammi della paziente non si poteva che provare una certa compassione, che la si comprendeva, ma in questo non c’era nulla, non c’era una traccia per orientare la cura. Freud la trova invece in qualcos’altro, ovvero in alcune piccole manifestazioni di soddisfacimento che nota in Elizabeth all’apparire o nel raccontare dei suoi dolori ed è da lì che parte per orientare la cura: dalla traccia che questi dolori lasciano nel discorso, dal loro acutizzarsi o indebolirsi nel corso delle sedute. Vale a dire che già il Freud degli Studi ricercava per orientarsi qualcosa di un desiderio o di un godimento che facesse capolino, piuttosto che orientarsi sul dramma o sulla comprensione del dramma.
Lacan va un po’ più in là, sostenendo che quella situazione di desiderio ci rimane ambigua, perchè -trattandosi di un’isterica- non sappiamo da quale lato prenderla: potrebbe tanto essere che per identificazione ella si interessi al cognato dal punto di vista della sorella o che per la stessa via si interessi alla sorella dal punto di vista del cognato. Conclude “Diciamo che il soggetto si interessa, che è implicato nella situazione di desiderio, ed è questo ad essere essenzialmente rappresentato da un sintomo, cosa che riporta alla nozione di maschera”. Vale a dire che il sintomo, la maschera, ci dice solo che il soggetto è implicato in una situazione di desiderio, oscurando qualcosa, ossia “non ci permette di orientare il soggetto rispetto a tale o talatro oggetto della situazione”. Il sintomo come maschera, riveste cioè un legame del soggetto con il desiderio e con l’oggetto, che non vi si esaurisce completamente, che resta parzialmente un punto interrogativo. Nel sintomo allora e per ritornare al tema di queste lezioni per come lo ha aperto la dott.ssa Davanzo, è racchiuso in questo senso qualcosa di reale, un godimento che vi è incluso, in-scritto ma che non può che presentarsi mascherato, non dicibile compiutamente. In questo senso Lacan già in questo seminario precisa infatti che se insiste su ciò che del desiderio, di questa x, passa nella parola e nella lettera non è certo per dire che in questo si esaurisca: qualcosa di irriducibile rimane, ma ciò che a lui interessa è che questo qualcosa non è un preverbale, un prima delle parolem, ma al contrario un al di là del verbo, un al di là dei significanti.
Il sintomo è maschera infatti per il Lacan del sem.V, perchè maschera letteralmente il desiderio, lo oscura, lo “riveste”. Ed egli insiste su questo punto, sostenendo che il desiderio rivestito dal sintomo è qualcosa di doppiamente mascherato: da un lato se è vero che nel sintomo qualcosa parla, qualcosa mostra un desiderio di riconoscimento, è vero altresì che si presenta in una forma chiusa all’altro, un riconoscimento che è allora da parte di nessuno e potremmo perciò tradurre che un sintomo si “traveste” da desiderio di riconoscimento; dall’altro proprio in quanto desiderio di riconoscimento, è un desiderio di niente, un desiderio che non è lì, che è stato rimosso, un desiderio appunto spostato, travestito.
Lacan insomma ci fa notare un carattere fondamentale del sintomo, quello del suo essere un rivestimento, una maschera, qualcosa che ri-vela, nel doppio senso dell’equivoco fra rivelare come mostrare e ri-velare come mettere un secondo velo, velare nuovamente e diversamente. Torna qui qualcosa ma in modo più chiaro, che già Freud ci mostrava, ossia che il sintomo nella nevrosi consente una manovra di evitamento di qualcosa, senza alterare il rapporto del soggetto con la realtà, proprio perchè questo qualcosa riesce a mascherarsi nel sintomo, a prendere una forma, e parimenti con Freud e di nuovo però in modo più chiaro, si viene a delineare che questa possibilità vien data in modi che non sono dati una volta per tutte, ma particolari, personali.
E’ evidente che questa possibilità di mascheramento, di velatura, non è data nella psicosi, che si trova invece continuamente a faccia a faccia con qualcosa di reale, con qualcosa di un godimento insopportabile, perchè non limitabile. Parto da qui per dire qualcosa del caso di Beatrice, un caso di psicosi in cui spero di poter far intravedere qualcosa di questa impossibilità di velatura e contemporaneamente anche dell’importanza che ha avuto invece per lei il poter cominciare a vedere o rivedere nelle sue difficoltà qualcosa di cui occuparsi, qualcosa da preservare.
La scelta di portare oggi qualche stralcio di questo caso è dovuta a due ragioni: la prima ha a che fare con l’intenso lavoro che il seguire questo caso ha comportato per me in seduta, nella mia analisi e in supervisione e sento per questo l’esigenza di cominciare a tradurlo in qualcosa di scritto e di aperto a una discussione; la seconda ha più a che fare con il tema di questo incontro, con il sintomo come qualcosa a cui identificarsi ed è stato proprio in supervisione che questa connessione con il tema mi è stata fatta notare. Piano piano si è potuto infatti rilevare come per Beatrice la costruzione di qualcosa che non è un sintomo in senso proprio, ma che nondimeno le segnala che lì bisogna fermarsi, che lì c’è un buco, qualcosa cui prestare attenzione per non finirci dentro, sia stata un punto di forza del suo percorso, cominciato ben prima di conoscermi. Poter cioè dire “su questo sto male”, poter identificarsi nel senso di ritenerlo qualcosa di suo, di importante e da non trascurare, è stato cioè per Beatrice fondamentale come punto di tenuta e di ancoraggio per non essere preda di un godimento altrimenti angoscioso, altrimenti insopportabile. Che qualcosa faccia per lei sintomo, nel senso di riconoscervi una difficoltà da non dover per forza superare, è qualcosa allora il cui valore di velatura di un ignoto, di maschera, va sostenuto e non disvelato, lasciato come “segno” di un qualcosa che lì può esser detto come limite da non valicare, entro cui invece ripararsi. In “La direzione della cura e i principi del suo potere”, Lacan dice che “l’idea che la superficie sia superficiale è pericolosa” e potremmo anche intenderlo non solo nel senso che la superficie fatta di parole, di significanti, non è affatto superficiale, ma anche nel senso che la superficie è importante perchè è ciò che mantiene, che tiene, che contorna ed può essere pericoloso non tenerlo presente e andarlo invece a cercare di svelare a tutti i costi.
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Annalisa Bucciol