LA CLINICA DEL DESIDERIO 1

Patrizia Gilli

Parto da questo titolo, strano in un certo senso, per l’accostamento che opera tra questi due significanti: clinica e desiderio.

è più usuale in effetti parlare di clinica rispetto al sintomo, o ad una patologia, proprio per il significato della parola clinica e per ciò a cui essa rinvia a partire dalla sua origine latina: clinica, ci spiega il dizionario, “è l’arte di curare il malato a letto, quindi […] l’arte della scienza medica indirizzata allo studio diretto del malato e al conseguente trattamento terapeutico”

Clinica perciò, derivando dal verbo clino-are, ossia chinare, piegare, inchinare, traduce e indica semanticamente una postura particolare nella quale si esplica l’azione della cura.

è interessante notare, nondimeno, che clinicus, come sostantivo, non è solo il medico praticante o il curante, ma anche l’ammalato, colui che è obbligato al letto.

Le risorse della lingua latina suggeriscono già una prospettiva sull’intervento psicoanalitico: clinici entrambi – l’analista e l’analizzante si chinano sul desiderio per curarlo…

Ma allora il malato sul quale ci si china può essere il desiderio? E il curante, al tempo stesso, sempre lui?

Credo che, in un certo senso, questo lo possiamo trarre dall’insegnamento di Lacan e dagli avanzamenti della sua clinica rispetto a quella di Freud, anche se è vero che in Freud, forse c’era già tutto…tutto quello che possiamo continuare ad imparare e a pensare. Lacan ha messo al centro della sua teoria la questione del desiderio (almeno fino agli anni ’60 circa) innanzitutto come origine e matrice dell’umanizzazione del soggetto, del suo poter divenire, da puro organismo vivente quale è alla nascita, inerme e sprovvisto di risorse vitali, gettato nel mondo come gli altri animali, un essere parlante e pensante, che entra nel legame sociale e nello scambio simbolico, che può identificarsi e riconoscersi in un’immagine che gli dà forma, che può provare affetti e nominarli, può godere e soffrire.

Al cuore della pratica analitica, d’altra parte, Lacan pone il desiderio dello psicoanalista (configurandolo poi in un discorso sorretto da una sua logica) e lo formula come un desiderio non di qualcuno verso qualcun altro, nel campo intersoggettivo di una relazione terapeutica, ma, piuttosto, come un desiderio di qualcosa, ossia che possa sorgere, grazie all’uso della parola via associazione libera, al suo ascolto e accoglimento, alla sua decifrazione, quella verità soggettiva che era rimasta fino ad un certo punto insaputa o indicibile; questo processo di cura esclude qualunque azione suggestiva o direttiva da parte dell’analista (già Freud lo aveva indicato) e qualunque uso del suo sapere a fini educativi, o adattativi o normativi rispetto alla vita di una persona, tantomeno nella prospettiva di un bene ideale e/o universale.

In altri termini il desiderio dell’analista, per Lacan, punta a convocare e chiamare in causa l’inconscio e ad interrogarne le formazioni: il sintomo, il sogno, il lapsus, per fare spazio via via a quella “differenza assoluta” che è la posta in gioco, in senso etico, di una analisi e la chance, per il soggetto analizzante, di uscire per quanto possibile dalla sofferenza che lo aveva spinto, all’inizio, a cercare un aiuto. Nel seminario VI “Il desiderio e la sua interpretazione” Lacan scrive ( pag 534) “il desiderio dell’Altro[…]noi non dobbiamo guidarlo verso il nostro desiderio, bensì verso un altro. Noi facciamo maturare il desiderio del soggetto per qualcun altro, non per noi. Ci troviamo nella posizione paradossale di essere i mezzani del desiderio o i suoi ostetrici, coloro che presiedono al suo avvento”

Torno a Freud: fin dagli “Studi sull’isteria” del 1885 il misconoscimento del proprio desiderio da parte del soggetto si presentò a Freud come una causa determinante del sintomo isterico….in altri termini c’è e opera, a dispetto della volontà e delle intenzioni coscienti di un soggetto, un desiderio inconscio, rimosso, un desiderio di cui l’isterica non vuole sapere niente; vale comunque, questo principio, per tutto il campo delle nevrosi e credo che nel corso dell’anno ci sarà modo di sviluppare questo tema nelle sue varie declinazioni cliniche. Per le isteriche incontrate da Freud la rimozione di un desiderio si commisura con la portata sovversiva di esso rispetto agli ideali, ai valori, ai significanti padroni ammessi dal soggetto, a livello cosciente, nei suoi legami con l’Altro e negli assetti della propria economia libidica.

Freud intuisce e trova conferma nel lavoro clinico che quel desiderio rimosso e innominabile è sempre legato alla sessualità e all’infanzia: lo qualifica con due parole, “indistruttibile” e “infantile”.

Ne “Interpretazione dei sogni” scrive:“l’avvenire così come si presenta al sognatore è modellato dal desiderio indistruttibile sull’immagine del passato”.

Oggi, negli anni 2000, i sintomi si presentano con altri “involucri formali” rispetto a quelli che Freud, nella sua epoca, incontrava nel suo studio e descriveva, cercando sempre di non fermarsi alla loro fenomenologia, per quanto mai trascurandola, ma di analizzarne la genesi per coglierne il posto e il senso nell’ organizzazione psichica del soggetto e nella sua storia familiare.

Le forme e le manifestazioni dei sintomi mutano, essendo al passo, ovviamente, con i cambiamenti sociali, culturali…che il fluire del tempo imprime ai processi di civilizzazione e agli umani, ai parlesseri. Scrive Colette Soler ne “La querelle delle diagnosi” (2003/2004 pag.8) “[…]i sintomi cambiano secondo il contesto di discorso, sono storici […] e Freud […] in fondo si era accorto che ciò che chiamava la psicologia individuale e la psicologia collettiva erano solidali l’una con l’altra […] oggi diremmo piuttosto che gli individui, uno per uno, sono soggetti di uno stesso discorso […] fin dall’inizio si è posta a Freud e ai suoi colleghi la questione di elaborare una teoria clinica propria alla psicoanalisi, diversa dalle teorie cliniche psichiatriche”

Questa clinica, dopo Freud e dopo Lacan e grazie a loro c’è? Sì, poiché la specificità e l’alterità della clinica psicoanalitica, rispetto a quella psichiatrica, si possono sintetizzare sostanzialmente in due punti:

  1. nella cura psicoanalitica e nel suo approccio al paziente la dimensione dell’ascolto prevale su quella dello sguardo. Certo anche in psichiatria si fa parlare il paziente, ma per ascoltarlo? piuttosto, in generale, per cogliere in quello che dice “i segni dell’appartenenza ad una certa categoria patologica […] dunque, non le tracce di un soggetto (vengono cercate) ma quelle di una malattia”

  2. ne discende una questione, ossia la differenza tra un sintomo etero-diagnosticato (versante psichiatrico/medicale in senso lato) dove la diagnosi viene dall’Altro e “la parola non è costituente, essa è solo il veicolo dei segni” ed un sintomo auto-diagnosticato (versante psicoanalitico e/o psicoterapeutico orientato dalla psicoanalisi)

Non si tratta, secondo Soler, soltanto di una differenza nell’approccio ad un sintomo, è ben di più perché si tratta di un criterio che determina le condizioni stesse e la possibilità di trattamento. Cito: “ è sintomo, nella psicoanalisi, ciò che il soggetto considera tale […] se non lo valuta come tale, esso resta inerte […] in altri termini ciò che si chiama sintomo nella clinica dell’osservazione non si chiama per forza così nella clinica auto diagnosticata del soggetto […] insomma ciò che l’altro sociale non sopporta o stigmatizza non sempre coincide con quello che un soggetto non sopporta […] solo il soggetto può dire cosa non va per lui […] benchè ne ignori la causa. E quello che non va, qualche volta, […] è quello che non va quando tutto va bene […] il che fa sì che molto spesso i nevrotici si facciano trattare da malati immaginari […]. Un malato immaginario è un malato soggettivo, qualcuno di cui il discorso comune dice: ha tutto per essere felice e invece no, non va. Si può lì cogliere il notevole scarto tra il sintomo visibile […] e il sintomo invisibile, quello che il soggetto vive,[…] tra il sintomo osservato e il sintomo soggettivo”.

Traggo una riflessione da questi passaggi, che meriterebbero riga per riga di essere commentati a lungo […] ma ci lavoreremo nel corso dell’anno: quel sintomo invisibile, quello che il soggetto vive, rinvia, in generale ad una difficoltà particolare degli esseri umani e in primis i nevrotici nell’aver a che fare con il proprio desiderio. Difficoltà triplice: riconoscerlo nel senso di volerne sapere qualcosa, assumerlo nel senso di prendersene una responsabilità, e infine cercare di tradurlo in atto, nel senso di scegliere e decidere se si vuole ciò che si desidera.

è un paradosso, in un certo senso, constatare che la cosa più intima e propria di ciascuno può presentarsi o essere trattata come la più estranea e disturbante, è un paradosso che la psicoanalisi ha, non tanto scoperto ( secoli di poesia e di letteratura l’hanno preceduta) quanto posto a fondamento della sua teoria strutturale dello psichismo. Cito un passaggio di Lacan dal seminario VI “Il desiderio e la sua interpretazione” (pag. 396) “Non possiamo in alcun modo ritenere che il desiderio funzioni in maniera ridotta, normalizzata, conforme alle esigenze di una sorta di preformazione organica che lo trasporterebbe su vie già tracciate, sulle quali noi dovremmo ricondurlo quando se ne allontana […] nell’esperienza il desiderio si presenta in primo luogo come un disturbo. Esso turba la percezione dell’oggetto […] questo oggetto esso lo degrada, lo disordina, lo svilisce, in tutti i casi lo fa vacillare, talvolta arrivando addirittura a dissolvere colui che lo percepisce, vale a dire il soggetto. […]Insomma il desiderio si presenta come il tormento dell’uomo […] contrariamente a quanto un’idea armonica e ottimistica dell’evoluzione umana potrebbe […] indurci a supporre, non c’è un accordo preformato tra il desiderio e il campo del mondo. Ce lo insegna l’esperienza analitica: le cose vanno in tutt’altro senso”.

Ma questo “tormento” è anche la nostra cura, il clinicus malato e curante al tempo stesso, perché mettere in gioco il desiderio, e mettersi in gioco con esso, resta comunque un’occasione, per gli esseri umani, e una risorsa vitale […] come altrimenti si potrebbe non cedere alla ferocia del SuperIo che sempre comanda un godimento sacrificale in nome di ideali variamente ammantati, familiari, sessuali, politici religiosi economici ecc.. spesso ostili alla singolarità del soggetto e al suo godimento?

Su questo chiudo con un breve accenno ad un film, l’ultimo di Spielberg sugli schermi adesso, “The Fabelmans”. Questo film parla, io penso, del desiderio, è esso il protagonista invisibile, ma centrale nel suo fulgore, di una storia che inizia in America, negli anni 50, in una famiglia ebrea. Naturalmente non ne dirò molto per non guastarvi l’eventuale desiderio di andare a vederlo!

Si racconta in particolare di un bambino e poi di un ragazzo, Spielberg stesso, e del suo desiderio, quanto mai deciso, di fare e diventare quello che poi farà e diventerà cioè un regista, un regista nel campo cinematografico; questa storia si inquadra entro una specie di epopea familiare dove, in un gioco di sconfinamenti tra la realtà biografica e quella

fantasmatica, il soggetto cerca di catturare una verità dell’Altro, materno innanzitutto, munito di quel prodigioso strumento che è la cinepresa della quale si è innamorato fin da piccolo, così come di sua madre del resto. E scorrono, fissate sulla pellicola e sfuggenti al tempo stesso alla presa della parola, varie figure del desiderio umano e delle sue vicissitudini: il sorgere come desiderio dell’Altro, che investe il soggetto con i significanti del discorso familiare, poi la trasmissione di una passione, che tocca il reale, per l’arte, per l’invenzione anche, come “oggetti” designati, infine l’autorizzarsi ad avere un proprio sogno ed a non cedere su esso…il che vuol dire potersi separare dal sogno dell’Altro.

1 giornata di apertura Icles Mestre/Venezia 14/01/2023