L’identificazione tra destino e scelta soggettiva
19/12/2015 – giornata di apertura Icles – Mestre
Quest’anno proporrò un lavoro sulla costruzione del caso, quindi un lavoro centrato sulla pratica clinica, su frammenti di storie tratti dalla letteratura psicoanalitica e da esperienze personali.
Dato l’argomento generale dell’anno di insegnamento che oggi stiamo inaugurando (L’identità e le identificazioni: le vicissitudini di due concetti cruciali della psicoanalisi da Freud a Lacan) dedicherò una particolare attenzione – è quasi ovvio – alla questione dell’identificazione e dell’identità del soggetto. Del resto è fondamentale, per il discernimento clinico e per situarsi con una certa avvedutezza nel transfert, riuscire ad identificare chi è quel soggetto che stiamo incontrando; questo discernimento è un compito della nostra professione, in senso etico e deontologico. Non basta ascoltare, ascoltare qualsiasi cosa – soprattutto nei colloqui iniziali – occorre ascoltare un po’ sapendo quello che abbiamo bisogno di sapere, dal paziente. In altri termini, il nostro ascolto è, seppur libero, anche condizionato dall’esigenza di orientarci rispetto alla diagnosi strutturale. A tal fine, non ci si può limitare ad una raccolta di dati biografici e neppure ad un inventario, in senso descrittivo, delle peculiarità caratteriali di una persona, dei sembianti con i quali si presenta e delle impressioni che ne traiamo. Tutto questo è anche importante ( a volte lo diviene perfino troppo e questo può far segno di una cattura immaginaria, di una fascinazione speculare alla quale stiamo cedendo….), ma ciò che è cruciale è riuscire a situare il soggetto entro, diciamo, delle coordinate logiche, rispetto a quella che Lacan ha definito “topologia intrasoggettiva”. Lo cito (Sem.VI pag. 233)
“Nell’analisi, al momento di ciascun fenomeno, i posti del soggetto, del piccolo altro, del grande Altro, devono essere sempre da noi marcati, se vogliamo evitare di impegolarci in una specie di matassa, di nodo, come stretto in un filo che non si è saputo sciogliere e che forma….il quotidiano delle nostre esplicazioni analitiche”
I due concetti – identificazione e identità – sono strettamente intrecciati, ma sono anche distinti nel loro significato: l’identificazione, letteralmente farsi identico, comporta un processo e rinvia perciò ad un movimento in divenire, evolutivo; l’identità rinvia alla “conclusione”, in senso logico, di quel processo e all’effetto che ne risulta, ossia il “fissaggio” di una certa immagine di sé, costitutiva dell’Io, e di una definizione simbolica, fondatrice del soggetto.
Vi è lì insomma, in quel “momento di concludere” una stasi “necessaria”, un punto di arresto che consente al soggetto di riconoscersi, di poter dire “io sono questo”. Dico che è necessaria intendendo che è strutturalmente utile e benefica per stabilire, per ciascuno, il senso e la coscienza di sé come entità distinta dalle altre e continua nel tempo, non intendo dire che vi sia – strutturalmente – una necessità di questo nel senso di obbligazione, di garanzia, e la clinica lo dimostra in svariate forme.
Questa dialettica tra movimento e arresto è piuttosto complessa, nella misura in cui, come dicevo, vi è un intreccio tra identificazione e identità e le “vicissitudini” delle identificazioni possibili per un soggetto – anche quelle che potranno riaprirsi e mettersi in gioco grazie ad un percorso analitico – sono fortemente condizionate dalla consistenza – ossia dalla rigidità o fluidità e dalla conformazione strutturale (nevrotica, psicotica, perversa) – del nucleo identitario originario, primitivo: originario e opaco, talmente opaco che sfugge a qualunque presa simbolica, dunque non elaborabile via significante; Lacan parla – al riguardo – di “scelta insondabile dell’essere”.
Una scelta di assenso o di rifiuto, da parte del soggetto, dei significanti dell’Altro, una scelta che comporta una più o meno riuscita inserzione (e, a volte, nessuna ) nel legame sociale e nel discorso che lo anima.
Per quanto riguarda la pratica psicoanalitica, dobbiamo tenere presente che l’identità di un soggetto sopporta più o meno di essere messa in questione, in analisi, a seconda non solo della sua struttura, ma anche delle incidenze e contingenze reali – traumatiche – della vita; perciò Lacan ci invita sempre alla prudenza, al rispetto, e dice
“La pazienza e la misura sono gli strumenti della psicoanalisi. La tecnica consiste nel saper misurare l’aiuto che si dà al soggetto analizzante. Perciò la psicoanalisi è difficile” (“La Psicoanalisi” n.41- studi internazionali del campo freudiano – ed. Astrolabio)
Così il mio sottotitolo di quest’anno potrebbe essere: figure dell’identificazione nella clinica.
Freud ci ha consegnato una galleria di casi clinici, attingiamo ancora e spesso da essi per parlare di isteria, nevrosi ossessiva, fobia, psicosi, perversione. Dunque alcuni soggetti umani, pazienti di Freud, sono assurti a emblema e per così dire paradigma di determinate strutture cliniche (si pone subito una questione che lascio adesso in sospeso: l’identità di quelle forme di nevrosi o di psicosi è ….identica alle forme attuali che incontriamo nella pratica clinica?). Dora, l’uomo dei topi, Hans, l’uomo dei lupi etc., sono ormai la pietra di paragone – o perlomeno un punto di riferimento fondamentale – quando ci accingiamo ad un lavoro di costruzione del caso clinico, perciò di lettura – in senso diagnostico – dei sintomi e delle altre manifestazioni di sé che un paziente ci porta. Ci sono perciò delle “identità” tipiche della nevrosi o della psicosi, che si sono così a loro volta “fissate” nel nostro sapere: questo indubbiamente è una bussola, aiuta, ma a volte paradossalmente anche disorienta, quando ci si preoccupi troppo di forzare i soggetti attuali che incontriamo (isterici, ossessivi, etc…) entro quegli schemi che la teoria e la clinica freudiana ci hanno lasciato.
Lacan – quei casi di Freud – li ha riaperti, facendo avanzare il nostro sapere sulla teoria della clinica e sugli interventi “tecnici” nella pratica. La Dora di Lacan è già un’altra Dora rispetto a quella di Freud perché, pur restando la stessa persona, la prospettiva nuova in cui viene “analizzata” mette in luce aspetti ed elementi inediti della personalità e della struttura isterica, e del transfert nella cura di questa nevrosi.
Comunque, anche aldilà dei grandi casi che Freud ci ha lasciato, molte vignette cliniche, legate a consultazioni più brevi o meno ampiamente rielaborate, sono disseminate in tutta la sua opera, basti pensare all’Interpretazione dei sogni, alla Psicopatologia della vita quotidiana, all’Introduzione alla Psicoanalisi … : è un panorama di “casi umani” veramente ricco, una miniera da sfruttare; io credo che a volte convenga soffermarsi di più su ritratti, per così dire, minori, quasi dei cammei rispetto agli affreschi più famosi e commentati – in primis da Lacan…
Mi soffermo adesso su questi due significanti con i quali ho intitolato il mio intervento: destino e scelta.
Destino: l’identificazione è, in un certo senso, un destino, e potremmo anche dire che è il destino migliore che possa capitare ad un essere umano, auspicabile proprio per la sua umanizzazione: virtualmente, siamo tutti destinati a identificarci poiché nasciamo – comunque – in uno stato di cultura e non di natura. Ma il concetto di identificazione – e la parola stessa – richiedono subito un complemento: identificarsi con qualcuno, a qualcosa…a chi ? Perciò, destinati all’identificazione, come processo psichico costitutivo, a condizione che ci sia un altro, insieme a noi, accanto a noi; quelle braccia che ci hanno sostenuto, quello sguardo che ci ha guardato, estatico e curioso di scoprire la nostra particolarità, quella parola che ha nominato il nostro essere, nell’esperienza primordiale della fase dello specchio. Il processo di identificazione si inaugura grazie ad una messa in funzione dei tre registri: Reale, Immaginario e Simbolico, e i loro variabili annodamenti segneranno altrettanti “destini” strutturali. È evidente – alla luce di tutto ciò – che l’identificazione del soggetto umano non è un destino in senso ontologico, bensì in senso strutturale, e in quanto tale sospeso ad una serie di contingenze, familiari, sociali, culturali…. La prima di queste contingenze è, ovviamente, la presenza reale di un Altro, ma già non basta, perché occorre che esso non solo accudisca il bambino, offrendogli risposte adeguate ai suoi bisogni, ma gli si offra tout-court, incondizionatamente, senza calcolo e senza risparmio, perché desidera che il bambino mangi, dorma, giochi, rida, impari…ossia che prenda, che goda, che faccia suoi quegli oggetti che gli vengono di volta in volta proposti. Croce e delizia delle madri che dicono, per esempio, “mi mangia poco…” oppure “mi dorme abbastanza.” Sottolineo l’ambiguità sintattica di queste formulazioni, del resto piuttosto ricorrenti.
Le esperienze documentate da Spitz, già in anni lontani, hanno mostrato quanto possa essere drammaticamente compromesso il destino di quei neonati che incontrano solo un altro anonimo, anche se competente e scrupoloso – un altro che può prestare delle cure, ma non far dono della sua presenza.
La condizione dell’autismo infantile mostra – nel modo più estremo – che il processo dell’identificazione – come assenso originario all’Altro – può non attivarsi; il motore della vita psichica lì non si accende e allora il soggetto non si assimila all’Altro, restando chiuso in una bolla impenetrabile alla parola, al gesto, alle sollecitazioni umane dell’ambiente.
Vi è un’altra accezione del concetto di “destino” a proposito dell’identificazione: essa ci rinvia alla coazione a ripetere e a quello che Freud in “Aldilà del principio di piacere” ha colto e formulato parlando di “nevrosi di destino”. (vol. IX pag. 207 – 208).
La psicoanalisi ha scoperto – scrive Freud – che:
“ i nevrotici ripetono.. nella traslazione…situazioni indesiderate e…dolorosi stati affettivi, facendoli rivivere con grande abilità …essi mirano a interrompere il trattamento prima che sia ultimato, sanno ricreare l’impressione di essere disprezzati, sanno costringere il medico ad apostrofarli con severità, a trattarli con freddezza, trovano appropriati oggetti per la loro gelosia… ciò che la psicoanalisi svela a proposito dei… nevrotici, si può ritrovare anche nella vita di persone non nevrotiche che suscitano l’impressione di essere perseguitate dal destino … ma la psicoanalisi ha sempre pensato che questo destino sia creato da costoro in massima parte con le loro stesse mani, e sia determinato da influssi che risalgono all’età infantile…esistono così persone le cui relazioni umane si concludono tutte nello stesso modo… Questo eterno ritorno dell’uguale non ci stupisce molto se si tratta di un comportamento attivo del soggetto …e se in esso ravvisiamo una peculiarità permanente ed essenziale del suo carattere la quale debba…esprimersi nella ripetizione delle stesse esperienze. Un’impressione più forte ci fanno quei casi in cui pare che la persona subisca passivamente un’esperienza sulla quale non riesce a influire, incorrendo tuttavia immancabilmente nella ripetizione dello stesso destino”.
Queste parole di Freud ci dicono che i nevrotici – ma non solo – al di là delle rotture e delle interruzioni che agiscono nel rapporto con l’Altro – il che a volte dà l’impressione di vicende e vicissitudini piuttosto varie, perfino turbolente e sregolate – sono inconsciamente fedeli, più di quanto possano sapere (e spesso non ne vogliono sapere…) a quelle trame remote della loro storia – la storia infantile, edipica – che hanno improntato il senso della loro identità e nelle quali si sono fissati – fantasmaticamente – un certo modo sintomatico della relazione con l’Altro e un godimento reale… Così, per esempio, nel lavoro analitico si può cogliere, a volte, come certi “atti” (o meglio agiti) di separazione – nel reale – da parte di un soggetto, da un uomo o da una donna, per esempio, peschino – lasciandolo intatto – in un nucleo di identificazione inconscia ad una figura paterna o materna, i cui “destini”- di infelicità, di solitudine ecc – hanno segnato una strada. I nevrotici, insomma, aderiscono all’Altro e alla sua storia, ne ricalcano inconsciamente gli inciampi, tradiscono – con i loro sintomi – dei tradimenti che non si consumano (pensiamo all’uomo dei topi e alla sua identificazione al padre rispetto al debito non onorato…)
Ma allora come parlare di scelta, che valenza può avere questa parola…?
L’ho presa dal titolo di un seminario di Luis Izcovich (2011/12): “La scelta delle identificazioni”. Riporto un frammento (pag.6):
“L’identificazione è qualcosa che viene dall’Altro, essa si installa nel soggetto. E’qualcosa che è nel soggetto, ma che non gli appartiene completamente…esiste un…elemento essenziale alla definizione dell’identificazione, che permette di meglio comprendere perché si parla di scelta. L’identificazione è parziale per definizione: ci si identifica ad un tratto dell’Altro, che sia un tratto di comportamento, un tratto concernente il desiderio dell’altro o ..l’ideale dell’altro o…stati affettivi dell’altro… Di qui la questione: cosa fa sì che si prelevi un certo tratto e non un altro? Si tratta di esplorare questo clinicamente, caso per caso. Nondimeno è possibile stabilire una costante: le identificazioni partono da una scelta del soggetto. Ben inteso si tratta di una scelta inconscia, non comandata da una volontà del soggetto… in altri termini il soggetto è implicato nel processo, non è solo un elemento passivo. E’ quello che si evidenzia in una analisi. Le identificazioni vengono dall’Altro, ma il soggetto ha partecipato alla loro costituzione…l’identificazione è la traccia di un legame con l’Altro…senza legame non c’è identificazione”
E prosegue Izcovich (Ibid. pag. 8):
“Nella “Questione preliminare…” Lacan dice questo: “la condizione del soggetto, psicosi o nevrosi dipende da ciò che si svolge nell’Altro….ciò che si svolge è articolato come un discorso….(l’inconscio è il discorso dell’Altro)”…parlare dell’Altro come condizione del soggetto ci mostra che senza l’Altro non c’è soggetto. Ma utilizzando il termine condizione, Lacan ci indica anche che un soggetto non è il puro effetto di ciò che viene dall’Altro. Lacan non dice: l’Altro è la causa del soggetto. Dire che l’Altro è condizione implica che se ne deduca che vi è una parte, per costituire il soggetto, che non viene dall’Altro….siamo …nella questione delle scelte inconsce, intervenute precocemente e che determinano la costituzione del soggetto”
Ancora, a pag.107 :
“ Anche quando un soggetto si lamenta, in analisi, fino a che punto egli è sotto l’influenza dell’Altro? E’ opportuno mostrargli che egli sceglie da chi e su quale punto si lascia influenzare. Dunque, nell’identificazione, è l’Altro che parla attraverso il soggetto… Vi è una omogeneità tra l’identificazione e il desiderio. Così come Lacan ha potuto dire che il desiderio, nella sua essenza, è desiderio dell’Altro, l’identificazione è la parte dell’Altro che il soggetto ha preso per sé… si potrebbe sostenere che un desiderio presiede all’identificazione e la precede e si potrebbe anche dire che le identificazioni costituiscono il sostegno di un desiderio. E’ per questo che, in analisi, la questione latente che guida il processo dal punto di vista dell’analista, è di sapere se il desiderio dell’analizzante è condizionato da una identificazione o no. E’ una questione che si pone ogni volta e, anche se l’analizzante non la pone, essa si pone per l’analista. In altri termini, è l’Altro che desidera nel soggetto o è un desiderio del soggetto? E’ una questione complessa perché, per definizione, il desiderio guida il soggetto, ma quest’ultimo non è padrone del suo desiderio. Dunque, in realtà, si tratta di una configurazione che solo la fine dell’analisi permette di valutare. Perché la fine dell’analisi concerne la zona in cui si opera la caduta finale delle identificazioni e il viraggio ad un desiderio che non si sostiene più su una identificazione….un desiderio che non prende appoggio sull’Altro. Si comprende, da ciò, il legame tra l’identificazione e l’interpretazione.
Riprendo questa frase “ è opportuno mostrargli che egli sceglie da chi e su quale punto si lascia influenzare”: penso che sia una questione cruciale e molto delicata.
Come ci si arriva, in una analisi… ? Il transfert è ovviamente il presupposto, affinché l’intervento psicoanalitico abbia una presa, ma credo che qui ci sia molto di più, nel senso che possiamo cogliere – nella sua concretezza, nella sua applicazione nella prassi – il peso di quelle parole di Lacan, spesso citate – “il desiderio dello psicoanalista mira alla differenza assoluta”. Il desiderio dello psicoanalista, insomma, deve provocare la diversità del soggetto, deve spingere affinché lui – o lei – destinati, a causa di un certo discorso (paterno, materno, familiare…) a ripeterlo sempre identico, scelgano, ad un certo punto, di uscirne…..
Chiudo su un frammento che mi è apparso – rispetto a queste tracce che vi ho proposto – una sintesi folgorante e sottilmente ironica e, direi, poetica, delle questioni introdotte:
Michele Serra pagg.41-42 “Ognuno potrebbe” – ed.Feltrinelli:
“mi chiamo Giulio Maria, figlio di Giulio e di Maria. Tutti mi chiamano solamente Giulio, ma io porto il nome di entrambi i genitori per suggellare il semiprodigio rappresentato dalla mia venuta al mondo: unico figlio e nato molto tardi, nel 1980 mia madre aveva quarant’anni, mio padre sessantadue, non ero più atteso. Il “molto tardi” della mia nascita avrebbe dovuto riguardare, a rigor di logica, solo i miei genitori: era a loro che era capitato di generare “tardi” rispetto al corso delle loro vite. Per me, come per ogni nuovo nato, non era presto né tardi, mi ero presentato puntualmente al mio inizio, come tutti, rispondendo alla convocazione. Eppure la frase “Giulio è nato tardi” fin da quando ne ho avuto contezza, avendo me, solo me, implacabilmente me per soggetto, ha finito per sembrarmi, se non un atto di accusa, la sottolineatura di una scelta. Forse coraggiosa, certo stravagante: nato tardi… Con il passare degli anni ho finito per attribuire la mia tendenza allo spaesamento, al sentirmi poco sintonico con ciò che mi circonda, proprio alla forzatura anagrafica costituita dalla mia nascita. Sono uno che è nato tardi”
Patrizia Gilli