Il setting in riabilitazione psichiatrica ha una particolarità: è più che mai costituito di corpi, di spazi  – sì, protetti, ma anche “elastici”- , di azioni (significanti, o “parlanti”, come diceva Racamier), di tempi scanditi dal rito di una quotidianità condivisa. “Il setting ce lo devi avere in testa, questa è una clinica fuori-setting”, ricordo che ero solita dire ai giovani psicologi in formazione che desideravano iniziare il tirocinio da noi. Non c’è la protezione di tempi scanditi, di strumenti e tecniche a cui appigliarsi (o dietro cui arroccarsi), di spazi privati: ci tenevo sempre a sottolinearlo, affinché non scambiassero l’informale con il simmetrico, la flessibilità con un’assenza di legge, l’agire con il vuoto di pensiero.

La riabilitazione è un luogo dove il setting di lavoro si estende oltre le mura dello studio psicologico, oltre il rapporto vis-à-vis, con le sue scansioni e i significanti che vi si scambiano (silenzi, sguardi, parole – talora parole come fiumi, talaltra come rigagnoli stentati, o ancora come inaspettate sorgenti che sgorgano, malgrado tutto -…); il setting, cornice e contenitore di questi significanti, si allarga a tutto il centro diurno, e comprende i suoi spazi, i suoi arredi, i suoi profumi, le persone che vi gravitano e che fanno cose insieme, i corpi in gioco. L’esperienza ci dice che certe parole si riescono a pronunciare solo in studio, a tu per tu, ma altre – e non sempre le più lievi o superficiali – si lasciano scivolare fuori come per caso, davanti a un caffè, o mentre si affetta della verdura in cucina, o in soggiorno, in mezzo ai propri fratelli di percorso. A volte il setting si allarga ulteriormente, diffondendosi addirittura nelle strade adiacenti al centro, nel negozio del panettiere – che apostrofa con un sorriso chi, di solito, ha sempre gli occhi fissi sulla punta delle sue scarpe, portandolo ad alzare timidamente lo sguardo – o di fronte alla scuola elementare, i cui piccoli allievi salutano il “Maestro Pablo”, utente storico, che insegna loro l’alfabeto Morse e l’astronomia. Azioni condivise, momenti di comunità, che fanno discorso, che creano legame sociale.

L’irruzione del reale della pandemia ci costringe a riconsiderare questi assetti, a modificarli, a interrogare ciò che ne resta e ciò che divengono, a risignificarli.

I luoghi della riabilitazione, oggi,  si sono svuotati degli utenti, dei loro corpi, che arrivano – quando arrivano – contingentati, finalizzati a scopi precisi (la terapia, il colloquio…), normati da rigide prassi di sicurezza. Chi arriva, viene accolto da nuovi riti: non più il profumo del caffè, le chiacchiere sulla squadra di calcio, la domanda su come si è dormito, bensì la misurazione della febbre e la disinfezione delle mani. Gli operatori mostrano i loro occhi da dietro le mascherine, camici verdi coprono le collane di Veronica e le magliette di gruppi rock di Silvio.

Alcune aree del servizio, fra cui il piccolo centro diurno in cui lavoro da quasi dieci anni, e in cui avevo il mio studio, sono state chiuse, disinfettate, rese inabitate; al massimo, vengono usate per i gruppi “online”. È un’ esperienza straniante vedere un luogo fino ad pochi mesi fa pulsante di energia vitale, trasformarsi in una sorta di setting virtuale dove gli operatori esprimono, loro malgrado, l’angoscia della situazione – loro, che maneggiano argilla o colori davanti ad uno schermo, mentre gli utenti cercano di imitarli da casa – attraverso voci sempre più acute e risate eccessive. 

Le attività online, unitamente agli interventi domiciliari, sono il nuovo “must”. Il lavoro domiciliare è senz’altro meritorio e potrebbe essere proficuo, pur se non privo di criticità, ma è forzatamente limitato, dato l’esiguo numero di risorse disponibili, in confronto alla massa dei pazienti del centro.

La c.d. “teleriabilitazione” rappresenta il tentativo di tenere, grazie alle video-chat, dei fili di legame in gruppi che da anni condividevano progetti (artistici, formativi, di socializzazione…): ma la virtualità che disincarna, assieme a una diffusa diffidenza di molti utenti di fronte a questo sguardo tecnologico che entra nelle loro case, non rendono le cose semplici. Gli operatori vi si dedicano, come dicevo, con una strana euforia, che li porta ad essere un po’ “sopra le righe”, probabilmente mossi da un inconsapevole tentativo di riempire di vita e allegria queste relazioni a distanza, rese così fredde dall’assenza di corporeità.

In controluce, appaiono vecchie “passioni” istituzionali che credevamo sconfitte: il controllo, la custodia, il paternalismo, le “divise” (“solo per igiene – per carità! – solo per praticità, visto che gli indumenti vanno lavati tutti i giorni…” questi i discorsi che iniziano a circolare), il fatto che siano gli operatori a pianificare gli accessi degli utenti al servizio, un servizio che prima era incentrato sul significante della “accoglienza”, del “fare casa, luogo abitabile”: adesso, per ogni giorno si decide preliminarmente chi potrà venire, a che ora, per quanto tempo, con chi… per evitare i temuti “assembramenti”, per garantire il “distanziamento sociale”. Gli utenti acconsentono di buon grado, e i pochi che protestano, che si presentano di loro iniziativa, vengono necessariamente redarguiti e fatti allontanare. Non posso non ricordare uno psicoanalista argentino, passato per le prigioni della dittatura, Benasayag, quando ricorda come l’epidemia – nel suo stato eccezionale di sottomissione dei cittadini per propria stessa volontà – rappresenti, di fatto, il sogno di ogni tiranno… 

E io, che faccio rientro dopo due mesi di assenza per malattia, per aver attraversato il Coronavirus in presa diretta, io, in prima persona, vivo lo spaesamento: non ho più la funzione di custodire questo piccolo luogo, fisico e psichico, la cui perifericità rispetto al resto dei Servizi – e al loro potere di controllo – ci aveva permesso di inventare e sperimentare con uno spirito di entusiasmo, quando non di anarchica follia, negli anni passati; di questo luogo mi sentivo, forse impropriamente, una sorta di genius loci. Questo luogo non esiste più, e nel mio peregrinare (borsa, computer, agenda, portapranzo, giacca…) da uno studio non mio all’altro, provo i vissuti di un esule, o di un sopravvissuto, che deve ricostruire daccapo, ma non sa bene cosa e dove. E così, come nella malattia mi sono improvvisamente sentita “come” i miei pazienti (fragile, impaurita, ridotta al reale di un corpo costantemente ascoltato e per questo terribilmente estraneo, perturbante), sperimentando questa simmetria dell’umano forse immaginaria ma potente, anche adesso, così smarrita in questo Mondo Nuovo (alla Huxley), intercetto in me i vissuti di solitudine, isolamento, non appartenenza simbolica che attraversano i nostri pazienti in questi giorni.  Quando finirà, dottoressa?” mi chiede al telefono Nanni, giovane psicotico. “E’ dura, eh? Non lo so davvero… speriamo presto”, gli rispondo, non mi sento di dargli un messaggio consolatorio. Quando finirà, mi chiedo anch’io? Quando riusciremo ad annodare un po’ di simbolico a questo reale feroce, e a questo immaginario inchiodato sulla dicotomia paura/sicurezza?

Io sono di fatto stata “assieme” ai miei utenti, nella paura della malattia, nelle preoccupazioni per la sicurezza, per la vita stessa, uscendo da quello spazio intermedio dove di solito il curante si colloca. Si era creata una sorta di immaginaria simmetria: io, era ovvio anche se non esplicitato, ero stata attaccata dal Coronavirus come tanti, tantissimi nella nostra zona, come i loro amici, o parenti, dunque non c’era neanche da chiedere o chiedersi cosa mi fosse capitato… così gli analizzanti, durante la mia assenza, mi chiamavano, si informavano della mia salute e mi manifestavano vicinanza, come compagni di strada nel pesante percorso della pandemia. Ciò, se da un lato mi ha commosso, dall’altro mi ha portato a interrogarmi, a chiedermi: e poi? Questo aver mostrato la mia fragilità – mio malgrado – ai tempi della malattia, che effetti avrebbe avuto? Cosa avrebbe comportato, nel prosieguo del trattamento, questa momentanea ed involontaria inversione dei ruoli, per cui i curati si ponevano dal lato del curante, preoccupandosi per me, per la fragilità del loro oggetto agalmatico? Sono stati interrogativi che mi sono posta e che ancora sto tenendo a mente, nel riprendere il lavoro con ciascuno, per poterne circoscrivere la portata immaginaria e per lavorare sulla questione transferale sottostante. 

In questi primi giorni di contatto con loro, con i miei pazienti, i significanti che circolano sembrano ancora, soprattutto, quelli della pan-demia, che Cevasco in un recente intervento indica come qualcosa che è – dal suffisso pan – “per tutti”. Contagio, infezione, malattia, morte, prima, dopo… Ma non c’è “per tutti” in psicoanalisi, ci ricorda Cevasco. Come favorire, d’ora in poi, la circolazione di una parola che dica del soggetto, in questo tempo sospeso, così ancora a cavallo fra un “prima” mitico e un “dopo” così pieno di incertezze?  Come passare dall’universale al particolare?

Parlando con altri colleghi, ho rilevato una sorta di comprensibile insofferenza per questa retorica del virus, che sembra averci appiattiti appunto su un universale, sia nel registro simbolico (tutti usiamo le stesse parole), sia immaginario (pure le emozioni sembrano omogeneizzarsi, così come le nostre facce semi-nascoste da mascherine), e reale (di corpi chiusi all’Altro e parassitati da un ospite perturbante)… Eppure io sento di dover restare ancora un po’, con i miei pazienti e colleghi, in quest’area “pan-demica”, per dirla con Cevasco, per poter poi – nell’ascolto dell’uno per uno – estrarre le questioni singolari. Forse questa necessità di sostare un tempo in più è dovuta al fatto che lavoro a Bergamo, che nell’immaginario di tutti è ormai “l’ombelico del virus”… o forse perché io per prima, anche per ciò che questa malattia ha comportato nella mia vita, necessito di un ulteriore tempo per comprendere. Non lo so. 

Certo devo lavorare su questa sorta di mio sconforto attuale, derivante soprattutto dall’osservazione di una (forse) inevitabile deriva securitaria e desoggettivante dell’istituzione psichiatrica ai tempi del CoViD. Riconosco questo sconforto come affine alla viltà, come Lacan definisce la malinconia: e confido sul fatto che l’appartenenza a questa nostra comunità psicoanalitica, che sta ascoltando questo mio interrogarmi, ed il transfert di lavoro che muove, possa essere qualcosa che contribuisca a rilanciare il mio desiderio (pur nella consapevolezza che non c’è da farsi illusioni rispetto alle cose del mondo, specie a quello delle istituzioni…)

Les non-dupes-errent…Lacan intitola così il 21° Seminario. I non-ingenui, quelli che “non si fanno più  fregare”, errano, nella doppia accezione di sbagliare ma anche di errare come vagare… Forse questo mio “errare” dell’oggi deve smettere di generare in me delusione e abbattimento, forse solo a partire da questa esperienza di smarrimento e di erranza potrò ritrovare  quella che sempre Lacan definisce “la gioia in ciò che costituisce il nostro lavoro”, frase che non a caso abbiamo deciso di mettere in esergo, nella Home Page del sito di FLaI.

Paola Grifo, 30 maggio 2020. 

Intervento nella giornata di studio “L’irruzione del reale e il setting reinventato – La pratica clinica e istituzionale nell’epoca del coronavirus”