Di: Patrizia Gilli
Siamo nella cosiddetta fase 2 e parto dall’esperienza che stiamo facendo; cautamente usciamo da una clausura forzata e straniante, gradualmente ci riappropriamo di luoghi di vita e di lavoro dai quali, per un periodo piuttosto lungo, siamo stati esiliati.
Dopo “l’ istante di vedere” e velocemente inventarsi qualcosa per fronteggiare un reale sconvolgente e per mantenere nonostante tutto possibile la pratica di lavoro con i pazienti, adesso ci troviamo, credo, in una specie di tempo “per comprendere”.
Occorrerà attraversarlo uno per uno, certo, il momento “di concludere” non potrà che essere singolare, ma la condivisione che possiamo trovare entro una comunità di lavoro, entro una collettività mi sembra un’occasione preziosa. Forse mai come in questo periodo ho avvertito la portata confortante di quella frase che Lacan ci consegna nell’Atto di Fondazione, quando dice :
“…il termine Scuola è da prendere nel senso in cui nell’antichità indicava certi luoghi di rifugio, o…basi operative contro quello che già allora poteva essere chiamato disagio della civiltà” (J. Lacan, Altri Scritti, pag.238)
Sappiamo che è un compito etico per lo psicoanalista quello di “raggiungere la soggettività della propria epoca” e dunque si tratta di pensarla, per sapere dove essa lo conduca. Siamo ora alle prese con una svolta epocale: raggiungere, dice Lacan,“la soggettività della propria epoca” e non può che essere così perché il reale arriva quando arriva e gli strumenti simbolici che abbiamo, per contornarlo, per reggere l’urto, sono inevitabilmente sfasati, diacronici.
Renderci operativi nel senso di un “raggiungimento” credo significhi trarre la possibilità di un guadagno epistemico, da questa strana esperienza “coronavirus”, ma soprattutto significa smuoversi dal rischio depressivo di continuare a galleggiare entro una bolla…smarriti, ma anche stranamente ovattati… e quasi portati a passare velocemente dal trauma al tran-tran.
Invece comprendere è un lavoro psichico e come tale comporta non solo uno sforzo del pensiero a livello cosciente, ma anche un assenso dell’inconscio; in altri termini, il processo di comprendere chiama in causa il desiderio soggettivo di spingersi in una ricerca, di lasciarsi aspirare fuori da quella (auto)reclusione che è – per struttura – il “normale” funzionamento dell’Io, un funzionamento di pensiero che Lacan definisce “debile” nella misura in cui si riduce volentieri al senso comune e – in fondo – vuole solo conferme di quello che già (si) sa. Insomma si tratta della inestinguibile e squisitamente umana passione dell’ignoranza: essa rinvia in parte alla matrice narcisistica dell’Io, al suo precoce costituirsi in un approccio immaginario all’altro, in parte a un non volerne sapere della castrazione e dell’angoscia che essa genera.
E’ indubitabile che l’irruzione del reale costituita dalla pandemia ci ha sbattuto in faccia qualcosa che ovviamente, in quanto esseri umani e parlanti, sappiamo e temiamo sempre, ma che resta “normalmente” velato, e attutito dall’impianto simbolico che scandisce e regola la nostra vita. Come se una barriera protettiva su una voragine avesse ceduto, abbiamo colto, tutto a un tratto, il senso della nostra precarietà e fragilità, l’incombere della minaccia alla nostra vita, al nostro essere corporeo.
Non sviluppo questi aspetti dell’esperienza, cerco di dire qualcosa rispetto ai cambiamenti che ci sono stati nella pratica clinica: deviazioni, variazioni… non saprei bene come chiamarle.
Improvvisamente confinati nelle nostre case, cosa potevamo “offrire” ai pazienti,come alternativa possibile agli incontri abituali “in praesentia” ,nell’hic et nunc del nostro studio ?
Fino all’8 marzo 2020 le regole che presiedono al ricevimento dei pazienti erano – sostanzialmente – quelle stabilite da Freud, certo poi radicalmente innovate da Lacan, ma insomma rimaste invariate da…circa 120 anni , anche di più. Dirlo, scriverlo, fa una certa impressione!
Fino a quella data fatidica, tranne poche situazioni particolari (parlo ovviamente della mia esperienza di lavoro nel privato, sicuramente nell’ambito istituzionale le cose sono diverse…) e sulle quali mi interrogavo, valutandone l’opportunità, l’uso di Skype o della chiamata telefonica per svolgere la seduta non erano contemplate nel quadro simbolico e formale del dispositivo analitico (setting) al quale mi sono formata, oso dire ci siamo formati.
L’incontro “reale” tra analista o psicoterapeuta e analizzante/paziente è sempre valso come una “legge”perlopiù implicita, ma anche a volte esplicitata, una clausola del patto simbolico (a lungo si è parlato di contratto terapeutico, sfumatura meno delicata della cosa..) che vincola entrambi, con un certo rigore, ad attenervisi. C’è da dire che – anche prima della clausura – questo rigore si era sfilacciato rispetto ai trattamenti di Freud e di Lacan e della loro epoca, perché ovviamente il nostro tempo non è il loro… ma adesso non entro in questa questione.
Ma, dopotutto perché? Non è lo stesso, non fa lo stesso? mi son sentita più di una volta chiedere da giovani colleghi, “innocenti” e perplessi, non sarebbe lo stesso incontrarsi in quel luogo virtuale che è il web, non sarebbe addirittura meglio, più comodo, un guadagno di tempo… e anche di denaro ecc…?
Si poteva rispondere – e mi sono trovata a farlo – che proprio per questi motivi, oggettivamente ineccepibili, una siffatta impostazione del lavoro analitico non sarebbe stata né opportuna né auspicabile, perché quel reale che è in gioco nello scomodarsi e spendersi per una propria analisi o psicoterapia non è un effetto collaterale, neutralizzabile, del lavoro ma è – esso stesso – lavoro. L’esperienza analitica ha anche questo effetto e mira ad esso : incidere sul godimento dell’inerzia e disturbare la routine. Questo obbiettivo può tradursi talvolta in una strategia, nella direzione della cura, che pertiene alla dimensione dell’atto... suscitando. Perciò l’orrore che esso porta con sè (la “rivoluzione” lacaniana dei rituali analitici, cosiddetti ortodossi, ha fatto scandalo negli anni cinquanta, ha osato disturbare quei rituali sui quali analisti e analizzanti si erano ben assestati… )
Porto un frammento, a questo riguardo. Parecchi anni fa avevo portato in supervisione ad Annalisa Davanzo il caso di una paziente, una giovane donna, che mi aveva messo in grande difficoltà. Era una paziente molto angosciata, con una sintomatologia ossessiva piuttosto invasiva e un “blocco” relativo alla sua attività professionale.
Abitava in un paese piuttosto lontano e – oggettivamente – il viaggio per venire nel mio studio era lungo e non agevole per i mezzi di trasporto che doveva prendere. In più, aveva difficoltà economiche e quel costo aggiuntivo le pesava… Insomma le difficoltà “reali” c’erano tutte e le resistenze che portava al proseguimento della cura (o meglio a entrarci… )sembravano legittimamente fondate su quegli ostacoli o quantomeno esasperate da essi; per dirla tutta, io stessa mi sarei volentieri sottratta all’aggressività che mi buttava addosso, arrivando sempre di pessimo umore, critica e oppositiva… su tutto! Insomma propendevo, e ne parlai ad Annalisa, per una dilatazione degli appuntamenti, la scansione settimanale forse era insopportabile per questa paziente ? ( per l’analista, di certo …)
Annalisa mi disse : “Ma no, questa donna ha bisogno di muoversi, di mettere in funzione il corpo… deve spendersi… per poter perdere godimento!”… più o meno queste le sue parole, ma la sostanza del concetto era questa; quell’intervento ebbe per me un impatto spiazzante e poi delle risonanze che, andando ben oltre la contingenza di quel caso, solo in après-coup, come succede, avrei colte…precisamente quando il passeur – alla passe in entrata alla Scuola (allora l’AMP), quando gli dissi che ero in analisi con una analista a Parigi, commentò “così lontano!…”
Ora tutto questo è davvero lontano… mi domando se adesso e da adesso in poi la modalità Skype, che è entrata quasi di necessità nella nostra pratica, diventerà un’opzione compatibile con essa e che noi stessi includeremo come proponibile . Che ricadute ci potranno essere? Fino a che punto si può derogare dall’assetto simbolico sul quale la clinica psicoanalitica si è costituita ?
Sì, li abbiamo proposti, e abbiamo verificato che nuovi “setting” sono praticabili, nell’emergenza e nell’urgenza. C’è da riflettere, tuttavia, se più che di setting “reinventato” (un aggettivo troppo pretenzioso?) si debba parlare di setting “deformato”….forzato dentro una cornice che rende tutto più artificioso. Un’impressione che ho avuto e che vorrei confrontare con la vostra è che il vis à vis nello spazio virtuale acuisca un effetto che di solito cerchiamo di bucare, di contenere, ossia quello della simmetria immaginaria e della reciprocità intersoggettiva … e che ne è della regola fondamentale e della attenzione fluttuante quando il “supporto” tecnico introduce e produce degli intoppi nella circolazione della parola che non hanno tanto a che fare con l’inconscio quanto con “oggettive” insufficienze della connessione ecc…? O forse anche i computer, come gli animali domestici, risentono del nostro inconscio ?
Ne risultano delle “vignette” degne di un film di Woody Allen, lo dico da un lato con sconforto, ma anche con una certa fiducia nei poteri di quella ironia che Lacan identifica come “…la grande trovata di Freud…che la ripristina nel suo pieno diritto, cosa che equivale alla guarigione della nevrosi. Ora la psicoanalisi è succeduta alla nevrosi: ha la medesima funzione sociale, ma anch’essa fallisce. Io cerco di ristabilire nei suoi diritti l’ironia, di modo che, forse, guariremo anche dalla psicoanalisi di oggigiorno” (febb.1966 Altri Scritti pag.209)
Concludo allora su questa nota riportandovi un frammento di Freud che mi è venuto in mente come un lampo mentre – come si dice – sanificavo lo studio, con uso di Amuchina sulle superfici varie…
“ …un impiegato statale, sofferente di ogni sorta di scrupoli, mi colpì perché pagava sempre il mio onorario con banconote pulite e lisce…quando una volta gli dissi che dal suo denaro nuovo di stecca si riconosceva subito l’impiegato statale che riceve lo stipendio direttamente dalle casse dello stato, egli mi informò che il denaro non era affatto nuovo, ma che egli stesso lo aveva fatto stirare a casa. Si faceva una questione di coscienza di non dare in mano a nessuno dei biglietti sudici; su di essi si annidano germi pericolosissimi che potrebbero recar danno a chi li riceve. A quell’epoca cominciavo già a intravvedere vagamente la connessione tra nevrosi e vita sessuale e, in un’altra occasione, mi arrischiai a interrogarlo su quest’ultimo punto…” (Freud op.vol VI pag.37 – Caso clinico dell’uomo dei topi)
Questa interrogazione svelerà a Freud che gli usi e gli scrupoli sul maneggio del denaro di quel soggetto rinviavano a pratiche sessuali per niente pulite, né più ne meno che abusi su giovani donne dei quali non aveva mai parlato e che non destavano apparentemente in lui alcun senso di colpa.
Ho portato questa vignetta – comica in modo sublime a mio avviso – per evidenziare quanto Freud fosse attento e pronto a cogliere, a centrare qualcosa di un reale del soggetto, in quegli atti (in questo caso il pagamento) che esulano dal bla-bla indotto dalla libera associazione sul lettino. Quello che Freud ci presenta nel 1909 come manifestazione bizzarra di un nevrotico ossessivo, oggi, anno 2020, verrebbe accolto come un comportamento perfettamente normale, benché un po’ grottesco ?
Stiamo attenti, mi sono detta, a non sanificare troppo la psicoanalisi…
30/5/2020