Melzo (MI) 22/10/2020
“La mia è una grave malattia,
in qualsiasi momento e ambiente,
può venirmi in testa una battuta,
non riesco a trattenerla, ad una Signora con tre cani:
“Signora, ma che bella enciclopedia”.
Massimo Poli “Venezianopoli” 2017
Charlie Chaplin, David Letterman, Jim Belushi, Richard Jeni, Robin Williams, Veronica Pivetti, Paolo Villaggio, Jim Carrey, Andy Kaufman, Charles Shulz, i clown, mio padre.
Hanno in comune da un lato il senso dell’umorismo, dall’altro la depressione, la malinconia o qualcosa del genere di una bile nera. Per il resto, è evidente, tra loro prevalgono differenze abissali. Tuttavia questa doppia veste sembra in qualche modo ripresentarsi anche a livello linguistico. Nel dizionario la parola umorismo viene fatta anticamente derivare da umore e legata all’umoralismo, alla dottrina umorale. Subisce poi l’influenza dell’inglese humor e viene ad indicare la facoltà, la capacità e il fatto stesso di percepire, esprimere e rappresentare gli aspetti più curiosi, incongruenti e comunque divertenti della realtà che possono suscitare il riso o il sorriso, con umana partecipazione, comprensione e simpatia (e non per solo divertimento e piacere intellettuale o per aspro risentimento morale, che sono i caratteri specifici, rispettivamente, della comicità, dell’arguzia e della satira).
Scrive Freud ne “L’umorismo”(1927) : “L’umorismo esprime un sentimento di sfida, e costituisce non solo il trionfo dell’Io ma anche quello del principio di piacere, che riesce in questo caso ad affermarsi a dispetto delle reali avversità”, ottenendo una diminuzione della tensione; penso alle sedute di psicodramma in cui, dopo un pesante silenzio, a volte irrompe una risata carica di angoscia.
“L’umorismo – continua Freud nel testo – ha un non so che di liberatorio, come il motto di spirito e la comicità, ma anche un che di grandioso e nobilitante. La grandiosità risiede nel trionfo del narcisismo, nell’affermazione vittoriosa dell’invulnerabilità dell’Io. L’Io rifiuta di lasciarsi affliggere dalle ragioni della realtà, di lasciarsi costringere alla sofferenza, insiste nel pretendere che i traumi del mondo esterno non possano intaccarlo, dimostra anzi che questi traumi non sono altro per lui che occasioni per ottenere piacere”. Lo scrittore Romain Gary definisce l’ironia “una dichiarazione di dignità e l’affermazione della superiorità dell’essere su quello che gli capita“.
Freud considera dunque l’umorismo come uno tra i più importanti meccanismi di difesa maturi, funzione di un Io stabile, che permette la gestione delle comuni richieste pulsionali, favorisce l’adattamento alla realtà e protegge dalla patologia. Molti attori comici e scrittori umoristici nella loro vita sarebbero effettivamente giudicati dei depressi ed è come se per loro l’umorismo rappresentasse una sorta di automedicazione.
La risata sarebbe, secondo vari studi, in grado di innalzare la soglia di percezione del dolore. Da qualche parte avevo letto che uno dei superstiti della strage nella sede del giornale satirico Charlie Hebdo, entrando nella redazione dopo il massacro, avesse commentato “non ho mai visto tanti sederi tutti assieme”, riferendosi ai colleghi riversi a terra.
Come il gioco del rocchetto permette di padroneggiare attivamente il reale traumatico della separazione, così l’umorismo rappresenterebbe un modo di rettificare il proprio rapporto con il reale attraverso la parola: il reale del trauma entra nel simbolico del gioco. Tuttavia in entrambi i casi non vi è solo l’aspetto di padronanza, ma anche quello di ripetizione del trauma.
L’arguzia è la capacità di creare quel piacere sociale che chiamiamo umorismo ed è una facoltà che quasi sempre si sviluppa a partire da condizioni soggettive che, dice Freud, “non sono molto dissimili da quelle della malattia nevrotica”. L’esito della battuta di spirito è un piacere sociale ,il godimento masochistico legato al sintomo si trasforma in godimento condiviso, passa dal silenzio del reale alla parola, si trasforma in motivo di spirito.
Sono molte le barzellette sui matti, così come quelle sugli stranieri, sul sesso, sulla malattia e sulla morte. Si ride su qualcosa che angoscia ma per ottenere l’effetto liberatorio occorre che vi sia la terza persona, il pubblico. L’efficacia è quella di far cadere un’inibizione, cosa che deve essere già avvenuta nella prima persona, ma che produce piacere solo quando accade alla terza.
Jean Louis Fournier , umorista di professione, ha scritto un libro sui suoi due figli, “diversi dagli altri”, alla ricerca forse di un terzo, di un pubblico, che nella vita quotidiana faticava a trovare. Nel libro, divenuto bestseller, Fournier scrive: “Il padre di un bambino handicappato deve avere la faccia da funerale. Deve portare stoicamente la sua croce dietro una maschera di dolore. (…) Non gli è consentito ridere, sarebbe tremendamente di cattivo gusto. Quando i figli handicappati sono due, la sciagura è doppia, e lui deve mostrarsi due volte più affranto. Quando non hai avuto fortuna, devi essere credibile nella parte, prendere un’aria disperata, è questione di etichetta. Spesso io ho ignorato l’etichetta. Ricordo un giorno, di aver chiesto un appuntamento con il primario dell’istituto medico-pedagogico in cui avevamo inserito Mathieu e Thomas. L’ho messo al corrente di un mio segreto timore: a volte non potevo fare a meno di chiedermi se Thomas e Mathieu fossero del tutto normali… Non l’ha trovato divertente”.
Albert Nguyen, nel seminario “Dall’inconscio-linguaggio all’inconscio-reale” , rispetto alla costruzione del grafo del desiderio a partire dalla struttura del witz, spiega come il motto di spirito ponga un problema all’analista e questo in virtù della struttura stessa del motto di spirito, perché è richiesta una struttura a tre, e il grafo mette in ordine proprio i tre registri del simbolico, dell’immaginario e del reale. “Il motto di spirito quindi si presta bene alla costruzione del grafo perché nella battuta c’è una parte immaginaria: posso dire che ho riso perché ho immaginato qualcosa di divertente; allo stesso momento questo qualcosa di immaginario lo si dice col linguaggio, si utilizza il simbolico, in un modo rigoroso, tale per cui se spiego una battuta questa non fa più ridere. Però è anche vero che c’è sempre qualcosa della battuta di spirito che sfugge, se dico “io rido perché...”, l’interlocutore può dire “ok ma perché?“, e voi potete rispondere “sì, perché...” e via avanti finché non incontrate l’impossibile a dire, pur sapendo che c’è ancora qualcosa, ma che non è dell’ordine di qualcosa che si può dire. È il reale, è questo che fa sì che ridete ma non potete dire fino in fondo il perché.” Albert Nguyen sostiene inoltre l’importanza della distinzione del tre dal ternario e l’appartenenza del tre al reale.
Come osserva Lacan, nel corso del piacere che si produce con il witz: “Nell’altro accade qualcosa che simboleggia la condizione necessaria a ogni soddisfazione: essere inteso al di là di quello che dico, poiché ciò che dico non può veramente farmi intendere. L’altro non vi è più, semplicemente, come luogo del codice, ma interviene come soggetto, ratificando e complicando un messaggio.”
E’ il fuoriuscire dal quadro di qualcosa di non delimitabile e nominabile a suscitare angoscia e la battuta, attraverso la forma di un non detto, non del tutto, non chiaramente, sembra rendere comunicabile questo al di là di ciò che si dice. La battuta forse crea un terzo con cui condividere l’angoscia, angoscia definita da Lacan non senza oggetto, e permette al comico di automedicarsi attraverso la condivisione di un godimento altrimenti mortifero .
Mi chiedo se questa trovata, questa automedicazione, non lo difenda solo momentaneamente da una vicinanza al reale che riguarda lui e sfiora solo il pubblico.
Il reale è del registro del non rappresentabile, di ciò che fa buco nell’ordine simbolico, per questo l’unico modo per trattarlo passa attraverso il mito, la poesia e la comicità. Come il sogno, la battuta permette una distanza dal reale, sono entrambe “cose da non credere!”, ma, attraverso la parola e la comunicazione con l’altro, acquisiscono un senso. Il comico stacca da sé la tragicità della vita umana condividendola con gli altri e traendone un effetto salutare, offre al reale una rappresentazione. La risata disangoscia, ma a volte si confonde col pianto. D’altronde Socrate, a conclusione del Simposio, asseriva che “le qualità richieste per scrivere tragedie e commedie sono le medesime”.
In memoria di Primo Levi, Massimo Mila ha scritto: “parrà un’enormità ma se mi chiedessero di definire con una sola parola lo scrittore, direi che era un umorista”. Prendere la parola è testimoniare senza garanzie, è farsi causa del senso delle azioni umane, anche in situazioni estreme come quelle dei campi di concentramento. Lo scherzo come narcotico, la satira e l’ironia come messaggeri di speranza; il divertimento come distrazione, la risata come volontà di sopravvivenza.
Scrive Antonella Ottai nel suo libro “Ridere rende liberi. Comici nei campi nazisti”. “Sembra quasi che, tanto più il repertorio si alleggerisce, tanto più le condizioni di vita si fanno pesanti: proprio i motivi della Vedova Allegra di Lehàr erano una delle musiche più eseguite ad Auschwitz, per contraddire con il suo brio le circostanze di orrore puro in cui era impiegata”.
“I trasporti naturalmente c’erano, ma si doveva anche ridere”, spiega in una intervista Jetty Cantor, attrice di cabaret sopravvissuta allo sterminio. In quelle drammatiche circostanze quello che colpisce è la contiguità spaziale e temporale dell’allegria e del lutto: la festa non consola il dolore dopo averlo esperito, ma gli si sovrappone e lo affianca, a volte, persino, lo precede.
Viktor Frankl è uno psicoanalista viennese sopravvissuto ad Auschwitz forse anche grazie agli “esercizi di umorismo” che utilizzava assieme ai suoi compagni di sventura. Il valore salvifico dell’umorismo trova peraltro conferma in moltissimi racconti sui campi. Chissà però se una volta tornati a quella vita civile che ci si sforzava di immaginare per allontanarsi dall’orrore quotidiano, i “salvati” non siano incorsi nel pensiero inverso, lo stesso che accusa Primo Levi in La Tregua, e cioè che una volta spostata la propria sede dalla parte di una normalità che in tempi di prigionia era solo esercizio di immaginazione, il pensiero scoprisse all’improvviso che la sola realtà era proprio l’incubo che intendevano scongiurare?
Scrive Primo Levi “E non ha cessato di visitarmi, ad intervalli fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento. E’ un sogno entro un altro sogno, sono di nuovo in Lager, e nulla era vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa. Ora questo sogno esterno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. E’ il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, “Wstawac”.”
E se Freud ci ha indicato come sogno e umorismo viaggino sulle stesse strade, quella risata, che scoppia proprio quando una ragione valida per ridere non c’era affatto, dispiega tutto il suo potere e squassa le pareti del mondo, mostrando a tutti che non erano nient’altro che quinte.
Il sogno è al servizio del desiderio di dormire, perché è una finzione che ammansisce le esigenze del godimento, relegandole nelle quinte del suo scenario. Sognare è una difesa, un caso particolare della difesa contro il reale. Improvvisamente ci si risveglia da un incubo per continuare a dormire attraverso un sogno ad occhi aperti che si adegua alla realtà che è già ordinata dal simbolico e dall’immaginario. In questo senso Joyce rappresenta un risvegliato dal sonno della realtà, uomo sveglio a cui il reale fuori senso non provoca nessun dubbio, nessun orrore.
Ma quando avviene che il risveglio al reale del godimento opaco si traduca in una impossibilità del witz, dell’enunciazione, della testimonianza? Quando nessuna parola è più possibile, non c’è più Altro, non c’è più senso che fa barriera al reale, l’unico atto responsabile rimane il suicidio? Scrive Lacan nel Seminario X, L’angoscia: “E’ nel momento del passaggio all’atto che, da dove si trova – ovvero dal luogo della scena in cui soltanto può mantenersi nel suo statuto di soggetto, come soggetto fondamentalmente storicizzato – esso si precipita e cade fuori dalla scena. Questo lasciar cadere è il correlato essenziale del passaggio all’atto. (…) Da un lato il mondo, luogo in cui si accalca il reale, e dall’altro la scena dell’Altro, in cui l’uomo come soggetto deve costituirsi, deve prendere posto come colui che porta la parola, ma potrà portarla solo in una struttura che, per quanto si ponga come veridica, è una struttura di finzione”.
“Un sistema per selezionare le persone intelligenti, è vedere se hanno senso dell’ironia, provi, non capiscono, altri ti guardano perplessi, ti hanno preso alla lettera, capita infine che qualcuno ti guardi con gli occhi che ridono, ha capito, di meglio, c’è chi ti risponde a tono, di meglio, c’è chi ti spiazza, fa il doppio salto, commenta la controbattuta che stavi per fare alla sua risposta, a volte, si ha a che fare con professionisti.(…) È Commedia dell’Arte, datemi un canovaccio e ci costruirò un mondo, sempre diverso.” (Massimo Poli)
BIBLIOGRAFIA
- P. Feliciotti, “Sul sogno. E su Primo Levi”, L’Ippogrifo “Sognare forse…”, inverno 2000-2001
- J. L. Fournier, “Dove andiamo papà?”, Rizzoli
- S. Freud, “Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio”, Vol.5, Bollati Boringhieri
- S. Freud, “L’umorismo”, Vol.10, Bollati Boringhieri
- J. Lacan, “Il Seminario Libro X, L’angoscia”, Biblioteca Einaude
- F. Lolli, “è più forte di me. il concetto di ripetizione in psicoanalisi”
- A. Nguyen, Lezione all’ICLeS di Napoli “Dall’inconscio-linguaggio all’inconscio-reale”, 2019
- A. Ottavi, “Ridere rende liberi. Comici nei campi nazisti”, Quodlibet Studio
- M. Poli, “VenezianoPoli”, Mazzanti Libri, 2017
- C. Viganò, “Guarire la salute mentale. La funzione sociale e terapeutica dell’umorismo”, L’Ippogrifo “La cura del Mondo”, estate 2002
- N. Zeper, “Riso e comicità”, L’Ippogrifo “La cura del Mondo”, estate 2002