Parlerò di un’esperienza di lavoro svolta dal 1994 al 2008 presso un’istituzione storicamente nata e conosciuta come Asilo notturno per i senza fissa dimora e divenuta, ad un certo punto, comunità di accoglienza – detta casa dell’Ospitalità – in parte gestita da loro stessi. In quella struttura, con altre colleghe psicoanaliste, aveva preso avvio un centro di ascolto, a disposizione degli ospiti che volessero usufruirne. Cerco di estrarre da una lunga storia, qualcosa che possa dar conto dello spirito e della prassi di un lavoro che, all’epoca si inquadrava nel concetto di “città solidale” ossia – cito le parole di Massimo Cacciari, allora sindaco di Venezia – una città che sappia “aprirsi all’altro, non ad un altro di comodo…ma proprio all’altro diverso, che reca i segni di un cammino totalmente differente, che la comunità di solito relega ai margini, ma di cui in realtà ha profondo bisogno per caratterizzarsi e crescere.

Qualsiasi agglomerato di individui produce asili, solo la città solidale offre la casa dell’Ospitalità”. Se è l’offerta, come sappiamo, che crea la domanda, un’offerta di riconoscimento della particolarità del soggetto può riaprire, per soggetti alla deriva, esiliati dal legame sociale, la scommessa di una nuova umanizzazione ; su questo orientamento etico si era fondato il progetto della Casa dell’Ospitalità e- in quella logica – la creazione del centro di ascolto sarebbe stata, pensavamo, un passo in più…tuttavia nella prima riunione della comunità, convocata per presentare ufficialmente agli ospiti la funzione di quelle nuove professioniste entrate nell’equipe, uno di loro esclamò : “questa è una battaglia persa ! perché vi interessate a noi ? lo sappiamo tutti che qui siamo vuoto a perdere (emballage perdu)”. Non proprio un benvenuto incoraggiante ! Eppure in quelle parole, lucide e crude, perfino aggressive, in quel “perché siete qui?”c’era già un’apertura all’Altro, l’ombra di una curiosità rispetto all’arrivo di quelle nuove ospiti che eravamo noi, in quella contingenza, ma che siamo sempre noi – in senso logico – quando, in veste di operatori “psi” mettiamo piede, per la prima volta, dentro una istituzione. Siamo, come dice Derrida, “il nuovo arrivante” nome che può designare…la neutralità di ciò che arriva, ma anche la singolarità di chi arriva, colui o colei che viene, capitando là dove non lo si attendeva..senza sapere cosa o chi attendere…ed è l’ospitalità stessa, l’ospitalità dell’evento” (J.Derrida -Aporie).

L’atto inaugurale che aveva segnato il viraggio nella storia dell’Asilo notturno era stato – qualche anno prima del mio arrivo lì – la richiesta di alcuni ospiti di poter accedere alle camerate non solo di sera, ma anche di pomeriggio, per riposare. D’inverno il freddo era duro da sopportare per la strada e il tempo morto della giornata veniva spesso riempito con il vino; allora il direttore responsabile, accogliendo quella domanda, introdusse una nuova regola, aprire la struttura anche dalle 12.30 alle 17. Poi d’estate, con la chiusura delle mense dei poveri, qualcuno propose di fare dei panini e di mangiare dentro alla casa…ma questo non era possibile, chi avrebbe provveduto a pulire ? Qualcuno si propose di farlo, e poi qualcun altro ancora – che aveva fatto il cuoco prima di arrivare lì – ebbe l’idea di cucinare qualcosa…così a poco a poco, attorno alla cucina e alla sua gestione, alla sua attrazione aggiungerei, un esperimento di comunità si era avviato, nella misura in cui un’incrinatura aveva rotto il circuito assistenziale, l’inerzia dell’essere ospitati per iniziare, anche, ad ospitare, ospitarsi. Nell’apres-coup di quegli eventi, credo si possa dire che stava, se non esplodendo quantomeno serpeggiando, in quel luogo degli ultimi, un evento di pacificazione, un processo di incivilimento nel legame sociale. Non era un miracolo, ma un movimento leggibile alla luce del sapere che la psicoanalisi ci offre : alcuni, tra i cosiddetti “vuoti a perdere” stavano incontrando nell’Altro istituzionale un ascolto umanizzante, uno sguardo di riconoscimento, il tentativo di far posto, nella pratica dell’accoglienza,al desiderio dello psicoanalista, nella misura in cui esso rileva da un principio etico al tempo stesso minimo ed enorme, ossia la logica dell’uno per uno.

Cito le parole di Annalisa Davanzo, compagna di strada in quegli anni di lavoro : sei come sei e come sei ti prendo, l’accoglienza non ha criteri ideologici o moralistici di esclusione, ma solo contingenti: se sei ubriaco, torna da sobrio..questo non si fonda su una logica umana da lazzaretto, qui c’è posto per te perché è il posto degli ultimi. No, l’accettazione degli infimi implica: in come sei c’è dell’altro, c’è un uomo. E’ questo in definitiva il valore del cittadino: uomo e non bestia. Per non stare a parlare vi dicono, eh! Sapesse quante ne ho passate…invece di dire “immagino” rispondo “non lo so, me lo dica” Se uno attacca il ritornello “vorrei un lavoro, una casa, una famiglia” rispetto può voler dire chiedergli cosa ne ha fatto di quelli che aveva. Il modo di chiedere è importante: l’interesse attribuisce all’altro non una colpa, ma una competenza, la sua vita lo fa depositario di un sapere. Meno l’interlocutore si pone come quello che sa, quanto più si pone come tramite di un principio di diritto…tanto più alle sue spalle l’inquadratura si apre sull’orizzonte che è il luogo dell’Altro, dell’insieme. L’Altro abita lì, all’orizzonte che ci comprende tutti..è uno spazio dove si respira”

Allora la scommessa era per tutti – ospiti ed operatori –poter respirare un po’ meglio, puntando innanzitutto a trasformare l’andirivieni automatico tra mense, osterie e dormitorio in una qualche forma di movimento proteso verso qualcosa che potesse, anche minimamente, rompere il circuito di un godimento  chiuso nella ripetizione, avulso (disabbonato)dal simbolico e sempre sull’orlo di esplodere in forme aggressive. Non più solo dormitorio pubblico o luogo di pronto soccorso alla emarginazione estrema, la Casa dell’Ospitalità offriva – a coloro che volessero fare quel passo –l’esperienza della comunità. Questo comportava innanzitutto stabilire la propria residenza anagrafica nella casa, potendo così usufruire, come cittadini, dei servizi territoriali, entrando così in una logica di diritti e di doveri relativi  alla collettività, sia quella interna che quella esterna alla Casa. Nella casa, si trattava di collaborare ai servizi di gestione quotidiana (pulizie cucina ecc), ricevendo una piccola retribuzione economica, si trattava di attenersi a regole, turni, orari ; sinteticamente era l’occasione di accedere ad una responsabilità paradossale che veniva messa in gioco, fondata su un patto simbolico e sospesa ad un tempo soggettivo di scelta, né calcolato né forzato dall’Altro istituzionale e che ovviamente, per molti, non arrivò mai. Perché dico responsabilità paradossale ? Perché gli uomini e le donne che arrivano ad essere – come si dice – i “senza fissa dimora”- non a caso arrivano in quell’ultima spiaggia, piuttosto che altrove : spinti dalle più svariate vicende personali, dove incidenze reali spesso drammatiche hanno fatto nodo per ciascuno/a, in modo unico e particolare, con una “scelta” insondabile dell’essere, inerente alla struttura, sono tuttavia accomunabili per un tratto che definirei come l’aver agito un rifiuto radicale e, in genere, irreversibile, verso qualunque legame – familiare, affettivo, lavorativo ecc – che li vincolasse ad implicarsi entro relazioni, con l’Altro, regolate da una legge e soggettivamente integrate in una propria identità, all’interno di un discorso e di una storia. La “tipicità” ricorrente di queste situazioni apriva di volta in volta, per tutta l’equipe, degli interrogativi diagnostici appassionanti e delle questioni difficili su come avere a che fare con quell’impossibile. Un impossibile che ancora di più era a cielo aperto nel gruppo delle donne, irriducibili a cedere del loro godimento – folle anche in quelle che non erano psicotiche – quel tanto che bastasse a socchiudere la porta della comunità. Per loro dovemmo inventarci altre strategie, ma adesso mi fermo qui .

Patrizia Gilli