Psicoanalisi fuori legge

Tavola rotonda “Psicoanalisi e Università”

 

Il mio intervento ha un carattere personale: si tratta in sostanza di cercare di raccontarvi qualcosa di come possa accadere che in un percorso universitario si incroci e si incontri la psicoanalisi; un percorso dicevo, che perciò è singolare e soggettivo, personale, il mio nella fattispecie, l’unico di cui possa dire qualcosa. Non so che cosa riuscirò a trasmettervi in queste parole della mia esperienza, spero almeno di non annoiarvi e che possa essere un buon modo per aprire delle questioni sul difficile tema dei rapporti fra “Psicoanalisi e università” su cui questa tavola rotonda è chiamata a discutere. Parrebbe infatti da un lato scontato che la psicoanalisi si incontri all’università, poiché alla facoltà di Psicologia si studiano i testi di Freud e dei suoi successori, dall’altro -almeno per me- questo non è stato sufficiente in un primo momento a far sì che la incontrassi, nel senso che mi ci  ero certamente imbattuta, senza che questo implicasse per me qualcosa di più che un considerarla una teoria come ve n’erano molte. E’ di come è diventata di più, che cercherò di raccontare. La particolarità di quello che racconterò sta nel fatto che questo incontro è stato possibile per il tramite di una persona, un professore ovviamente, ma non uno psicoanalista e questo è invece meno ovvio. Ma andiamo per ordine…

Il mio arrivo alla facoltà di Psicologia è stato, ad essere gentile con me stessa, poco consapevole di quello che mi aspettava, non mi ero neppure bene informata sul tipo di esami mi attendevano, né su cosa comportava la mia scelta… quello che sapevo era solo che ero lì, chiamata da un interesse per le storie delle persone, per quello che avevano da dire, che non aveva trovato un giusto posto nella scelta di una laurea in lettere o ancor meglio in filosofia, che pure avevo considerato e chissà perchè  (pensavo allora) scartato. La parola psicoanalisi mi ero quasi sconosciuta, se non per qualche accenno liceale, che mi aveva lasciato curiosità ma, devo dire, anche perplessità. Del resto questi accenni di psicoanalisi erano anche l’unico appiglio per la mia scelta, perchè se di psicoanalisi sapevo poco e niente, di psicologia ancor meno.

Confusa certamente io stessa, ho iniziato il mio percorso universitario, fra biologia e neuroscienze, statistica e psicologia della Gestalt, confondendomi ancora di più. Incontravo ogni tanto la parola psicoanalisi qua e là nei vari corsi, ora per dirne peste e corna, ora per osannarla, ora per dire che la psicoanalisi non è psicologia e non si capisce perchè si parli di Freud a psicologi, ora per dire che ogni psicoterapia è invece imparentata -che le piaccia o meno- con la psicoanalisi e che perciò bisogna invece parlare di Freud.

La mia confusione anche su questo insomma aumentava, tanto che mi ero decisa a non volerne sapere niente nè di psicoanalisi, ma neanche di quegli approcci che ce l’avevano troppo con la psicoanalisi e mi  ero avvicinata a una serie sparuta di professori che si dichiaravano (o gli studenti dichiaravano fossero) fenomenologi, costruttivisti, antipsichiatri…insomma altro da questa diatriba. Non riuscivo in sostanza a trovare niente di interessante tanto negli approcci cognitivo-comportamentali così in quelli neuroscientifici, ma io stessa, devo dire, rimanevo al contempo perplessa e

 

dubbiosa, anche se non disinteressata, da quello che della psicoanalisi avevo studiato all’università. Da un lato avevo trovato dei libri marginali molto interessanti, dall’altro  i sacri testi mi avevano invece deluso e in più mi ero ritrovata a leggere e rileggere alcuni libri, indecisa se ero io a non capirci a niente o se non era che effettivamente lo stesso concetto si ripeteva in mille modi diversi, pur rimanendo identico. C’era qualcosa nella psicologia dinamica, questo è il nome con cui all’università si parla di Freud e delle teorie psicoanalitiche, che mi attraeva e qualcosa che mi respingeva con eguale forza, in bilico tra il considerarla banale e riducente tutto al complesso di Edipo o alla relazione madre-bambino e il percepire che in questa forse banalità, c’era di più, qualcosa che aveva da dirmi e non coglievo appieno: leggere i casi e i commenti ai casi mi piaceva, mi piaceva come ne parlavano, mi pareva che avessero in mente un senso e una direzione. Insomma all’alba del 3° anno di psicologia avevo scelto in qualche modo l’indirizzo clinico, ancora senza sapere bene perchè e nella speranza di capirci qualcosa.

Attraverso il passa-parola fra studenti, in quello stesso anno intraprendo due esperienze che segnano una svolta in questo percorso: la frequenza per un anno all’ex- ospedale psichiatrico dei Colli con i pazienti che, dopo la chiusura del manicomio, non erano potuti tornare a casa e l’incontro con il prof. V.

Ricordo oggi con affetto, ma anche con sorpresa il fatto che tutto nacque da conversazioni nei corridoi, negli appartamenti di amici, in conversazioni impegnate a notte fonda tipiche dell’università, che invariabilmente si chiudono tra una birra e lo strimpellare la chitarra di qualcuno. C’era qualcosa nelle parole di quegli amici o semplici conoscenti, che andava per la prima volta oltre la bibliografia dell’esame o la sua difficoltà, oltre la noia e il disinteresse per alcune materie, le battute sui professori. C’era qualcosa di un coinvolgimento che li faceva andare a lezione, seguire seminari senza obbligo e senza promesse di sconti o premi all’esame, aver voglia di parlare e discutere con altri studenti delle lezioni, senza pedanteria ma anche senza che il coinvolgimento diventasse immediatamente tentazione a giocare al “piccolo psicologo”, limitata sempre dal monito del professore a ricordare che non sappiamo niente dell’altro, psicologi in erba o emeriti professori di psicologia che siamo.

Del prof V. si dicevano un sacco di cose: che era un fenomenologo, altri uno psicoanalista non dichiarato, altri un anti-psicoanalista, un filosofo, uno che faceva il t- group. gruppoanalista, un costruttivista… su una cosa erano d’accordo tutti che non si capiva mai che cosa pensava e da che parte stava, ma soprattutto in tanti mi dissero  che valeva la pena andare ai suoi corsi, anche se era uno severo e che metteva paura, aggiungevano di non spaventarmi subito.

Impaurita lo ero, ma anche un po’ disperata, perciò decisi di andare, anzi anticipai il suo corso di un anno, perchè non si sapeva mai -mi dicevano- quanto il prof.V. sarebbe rimasto all’università, ogni anno diceva che era l’ultimo e in effetti era già anziano.

La prima lezione fu da sola sconvolgente: il prof. spiega che spera che la metà di noi “desista” dall’idea di fare il suo corso e “si augura” di spaventarci abbastanza nelle prime lezioni, da indurre una decisa diminuzione del numero degli studenti, da due notizie sulla bibliografia vasta e variegata (ci sono addirittura due tomi di filosofia, Gadamer e Perelman), poi parte per una tirata di un’ora e passa sul concetto di “Abitare

 

la distanza” e “Lo straniero” in Rovatti, facendo mille e una digressioni, allusioni metaforiche, usando immagini, almeno altri 5 autori che non avevo mai sentito nominare, ecc. ecc…sullo spavento c’eravamo senza dubbio, tanto più che il prof. avvisa che all’esame scritto di 4 ore ci sarà anche l’analisi di un colloquio e che a lui non interessa proprio che facciamo i “bravi psicologi col manuale delle giovani marmotte”, ma altro… altro cosa? Mi chiedevo…

Rapita indubbiamente da questo strano personaggio, rimango tra i pochi che  il prof non è riuscito a far desistere, continuando a seguire le lezioni: di un corso partito con 100 studenti, rimaniamo forse in 50 e capisco benissimo quegli altri 50, di cui avrei fatto parte se non fosse stato perchè amici mi avevano pregato di non darmela a gambe subito. Che cos’è oltre a questi che poi mi tiene lì per l’intero corso? Difficile a dirsi, ma credo che la cosa che si avvicina di più sia l’aver sentito nelle parole di quell’uomo un rispetto così profondo per l’umano, una volontà tenace di non semplificare la realtà umana a costo di risultare antipatico o ostico, un innamoramento insomma che mi rendevano impossibile trovarlo semplicemente barocco, ermetico o esaltato. Sembrava che nelle sue lezioni, l’obiettivo non fosse insegnare la materia, che in realtà aveva un carattere pratico più che teorico, ma insegnare un modo, un atteggiamento, una disposizione d’animo nei confronti delle persone e prima di tutto di se stessi; una disposizione che non prescindeva mai da una certa quota d’angoscia: lo spaesamento, l’Unheimlich, che il prof. aveva avuto cura di far notare solo di scorcio essere un concetto originariamente freudiano. Ero lo spaesamento che andava sempre ricercato, sorprendersi di ciò che di estraneo abita in noi, in un testo, nelle parole che diciamo e ascoltiamo. Le parole, l’uso che fa di una parola detta una parola parlante per quella persona, era uno dei suoi cavalli di battaglia, sottrarre -come diceva lui- le parole dall’ “inesorabilità di un significante bloccato su un significato univoco”. Passano i mesi e tra Gadamer, Perelman, Bateson, Rovatti, Vattimo,  Merleau-Ponty, anche Lacan qualche volta, non una parola si è detta sull’analisi del colloquio e sempre meno  capivo che cosa avrei dovuto fare all’esame. Ci ho capito ancor meno da quando in una lezione il prof. è arrivato dicendo “Buongiorno, oggi vi darò in pasto uno psicoanalista… vi prego di non deludermi”. Arriva un tizio, che poi è il dott. Blascovich, che ci parla di una serie di casi a dir poco strani per l’ambiente universitario: casi di persone istituzionalizzate e per di più con degli handicap cognitivi… gli psicoanalisti, per quello che ne sapevo io, non parlavano di questo e in più questo psicoanalista non citava una volta sola la relazione madre-bambino, l’allucinazione primaria, l’identificazione proiettiva, il complesso di Edipo, devo dire che l’assenza di certi termini non mi dispiaceva affatto. Altri nell’aula ce l’avevano molto con lui perchè era uno psicoanalista e ogni tanto gli scappava qualche “castrazione” o “pulsione”. Il prof. V., la lezione successiva, si limita a chiedere che cosa ne pensiamo, modulando qua e là qualche critica feroce dei più esaltati anti- psicoanalisti e ricordando che non tutto della psicoanalisi è da buttare, come il testo di Semi (Antonio Alberto, proprio lui) che porteremo all’esame.

Arrivo all’esame parecchio in ansia e la consegna del prof. è comicamente severa “Il candidato non si avventuri in fantasticherie psicodiagnostiche, psicodinamiche o quant’altro, ricordi di star analizzando un colloquio, non sostenendo l’esame di

 

psicopatologia generale”…ottimo! Cioè? Che diavolo vuol dire? Diceva di volere altro dal bravo psicologo… Non ho alternative alle quali aggrapparmi perchè i testi sono troppo generali per trovare linee guida, scrivo perciò e per forza quello che penso, compreso che la paziente (è un colloquio clinico) mi  pare non sia del tutto in condizione di rendersi conto di dove si trova e di cosa le è capitato e che lo psicologo, psicoterapeuta, psico-qualcosa tenta delicatamente di limitarla un po’ in questo senso. Finito di scrivere, penso che forse le sentirò di santa ragione, visto che un po’ di conoscenze psicodinamiche le ho usate e che una fantasticheria diagnostica, almeno sullo stato della paziente, ce l’avevo nello scrivere. I miei colleghi, saputa la mia analisi, mi confortano, dicendo però che certamente non ne sentirò poche dal prof. Arrivo all’orale, in cui il prof. riconsegna gli elaborati e propone a chi ritiene di integrare, mi ritrovo non solo un voto alto, ma anche la richiesta di integrare “Non ci pensi a dire che non integra, sul colloquio come vede non c’è una sottolineatura… bel lavoro”. Ah… adesso sì che sono nei guai! Che vuol dire? Non lo so, ma capisco che qualcosa della trasmissione di un atteggiamento ha fatto in me breccia e che non dipende affatto dalla teoria che si usa, neppure se è quella contro la quale apparentemente si batte… mi viene in mente quello psicoanalista che è venuto a lezione, dicono sia lacaniano, a cui non so dare un posto.

Già, direte voi, bello… ma che centra questo con la questione di come si incroci il proprio desiderio per la psicoanalisi all’università? Centra, per almeno due ragioni: la prima perchè il prof. mi costrinse in quel caso a pensare con la mia testa e già questo sarebbe da solo analitico, ma in più mi accorsi per la prima volta e con un certo fastidio, che mi veniva naturale usare la teoria psicoanalitica; la seconda ha una natura più complessa.

Pochi mesi dopo, comincio a frequentare l’ex-manicomio in una sorta di tirocinio non riconosciuto per gli studi ma promosso da un professore universitario psichiatra. Fu un’esperienza importante, ma che oggi direi fatta da “incosciente”, nel doppio senso di non sapere coscientemente che cosa mi portava lì e perchè mi interessava, e nel senso che era da incosciente per me e per i pazienti girare per ore nello spazio sterminato del parco con persone in stato allucinatorio quasi perenne, che perlopiù non parlavano o poco, senza un infermiere a supervisionare, uno psichiatra, con la sola protezione di altri studenti più vecchi scelti dallo psichiatra o autopropostisi (penso oggi) allo psichiatra, che comunque si chiamava fuori dall’esperienza se non per rivendicarne la paternità. Quell’esperienza fu per me però importante, perchè quantomeno mi portava  a continuare a non capire perchè non smettevo di andare e trovarlo interessante e a non capire perchè non sopportavo, quella che allora trovavo una contraddizione: gli studenti che, diciamo, supervisionavo, ci affiancavano, mi parevano proclamare in nome della Fenomenologia, un’attenzione e una sensibilità per i pazienti, che non riservano ai noi studenti più giovani, perlopiù riempiti di non molto velate critiche alla nostra presunta onnipotenza, mania di grandezza oppure alla nostra insensibilità, poca comprensione, superficialità.

Beninteso quegli studenti avevano ragione, ragionissima, solo che la critica valeva anche per loro, mi dico oggi, anzi per l’esperienza nel suo insieme, mi verrebbe da dire. Ad oggi vedo quanto per me quell’esperienza abbia svolto una funzione

 

importantissima di limite, di mettermi un limite almeno su tre versanti: un limite a che cosa può fare uno psicologo, uno psi- in generale, perchè all’ex-manicomio non si trattava di cambiare nulla, di modificare alcunchè, si trattava solo ed esclusivamente di accompagnare delle persone estremamente sofferenti a fare un giro, a bere un caffè, senza alterare nulla di un equilibrio precario, doloroso ed alla vista per chiunque altro – se non loro- insopportabile; un limite all’idea onnipotente che avevo della psicosi come di un mondo per me troppo difficile, troppo diverso… troppo insomma, un troppo che io caricavo su qualcosa che non è né poco, né tanto, ma è certamente di qualcuno, psicotico o meno che sia; un limite a me stessa come persona, perchè altre cose che lì capitavano erano per me insopportabili e non dipendevano dai pazienti, ma da me stessa.

Per altre frequentazioni universitarie, incrocio ad un certo punto i lacaniani e vado per curiosità ad una conferenza sulla cura dei bambini psicotici. I lacaniani mi colpiscono subito perchè sono i primi a cui sento dire che non è bene essere troppo comprensivi, disponibili, interessati con gli psicotici, anzi che li si spaventa in questo modo e che la distanza e il limite è per prima cosa fondamentale. Mi sento alleggerita da un peso di mesi di frequentazione di quei reparti dell’ex-manicomio, in quel momento conclusi,in cui mi si diceva che dovevo capire più profondamente queste persone, entrare in una relazione profonda, patire insieme, essere sensibile… finalmente! Avevo non poco dente avvelenato all’epoca e non vedevo l’ora di trovare qualcuno che in qualche maniera mi desse ragione.

Forse per i motivi sbagliati, sta di fatto che però ritrovo nelle loro parole qualcosa che per me è importante e ritrovo anche qualcosa di quel profondo rispetto per l’umano e di quell’attenzione alle parole che nel prof. avevo sentito. Frequento per un anno degli incontri di una scuola lacaniana, ritrovando qui e là cose sentite a lezione dal prof, trovando anche cose completamente diverse, ma non so perchè mi pare che quella possa essere la mia strada, che ho trovato una via per cominciare ad abitare quella scelta universitaria, fatta un po’ cosi, senza sapere. Ritorno dal prof. per un secondo anno di lezioni di un altro suo corso, portando con me alcune persone che frequentavano l’èx-manicomio ma che non lo conoscevano o ne avevano sentito  parlare male. Quello stesso anno gli chiedo una tesi su un argomento che più vago non poteva essere: le mancanze della parola.

Il prof. accetta con riserva, mi chiede un indice in cui inserisco qualcosa sulla psicosi e sull’arte e preciso che ci sarà sicuramente Lacan, tra gli autori di rifermento. La mia richiesta viene accettata senza riserva a questo punto, ma con il monito che lui di Lacan non sa niente e mi chiede se so che tesi di questo genere sono, come dire, “malviste”, dato che non pare io voglia inserire ne dati, ne grafici, ne esperienze pratiche e insomma che mi devo ricordare dove sono, a Psicologia.

Devo un profondo grazie per la possibilità che mi ha dato di scrivere quella tesi, su quell’argomento e con quella bibliografia, una tesi che forse non condivideva per gran parte, ma che mi ha aiutato a costruire, scrivere e poi presentare, accettando anche che non fosse proprio “ortodossa”, per così dire. Ricordo a metà stesura, un suo commento: “Meno male che ha inserito qualcosa di Bion, disperavo di trovare qualcuno che si potesse considerare uno psi a questo punto… gliel’avrei detto, ma si è

 

salvata in corner” e ricordo anche con che precisione mi ha suggerito le letture più disparate, attendendo con calma che trovassi in esse una strada che fosse mia ed essendo solo poi più direttivo. La sua pazienza e anche la sua tolleranza nei miei confronti, che a tratti lo consideravo nelle mie fantasie più o meno consapevoli uno psicoanalista, è stata preziosa.

Nel corso della stesura della tesi, in cui c’era davvero qualcosa che mi riguardava profondamente tra le righe di quelle pagine, ha inizio infatti la mia analisi, in un rovesciamento di un interesse per le storie altrui, che si articolò come interrogazione sulla mia. Dall’analisi alla scelta di svolgere il mio tirocinio professionale tra i lacaniani il passo fu breve, così come pure di continuare la mia formazione all’I.C.Le.S come scuola di psicoterapia. Ora sono di fronte ad altre scelte, al fatto che la mia formazione, quasi conclusi gli obblighi di legge, non so se sia in realtà appena cominciata, ma certamente non è finita e non può prescindere da un luogo in cui assieme ad altri sia possibile mettere al lavoro quel qualcosa di un desiderio che dal lontano “Mi iscrivo a psicologia” ha incontrato la psicoanalisi e di cui ho cercato di raccontarvi.

 

Annalisa Bucciol