Ho tratto questo titolo da Freud : in una conferenza che aveva come tema “Il senso dei sintomi” – negli anni tra il 1915 e il 1917 – Freud si esprime in questi termini, presentando ad un pubblico eterogeneo, sicuramente curioso, sicuramente anche scettico e dubbioso, quella ancora poco nota nevrosi che è la “cosiddetta nevrosi ossessiva”.
Pag 234 Introduzione alla psicoanalisi I e II serie di lezioni, Boringhieri :
“La nevrosi ossessiva si manifesta in questi modi : gli ammalati sono assorbiti da pensieri per i quali…non hanno interesse, avvertono in sé impulsi che appaiono loro molto strani, e sono indotti ad azioni il cui compimento non procura loro alcuna soddisfazione, ma la cui omissione riesce loro assolutamente impossibile. I pensieri (ossessioni) possono essere in sé privi di senso, oppure soltanto indifferenti per il malato ; spesso sono completamente sciocchi, e in tutti i casi sono il risultato di una intensa attività mentale, che prostra l’ammalato e alla quale egli si abbandona molto malvolentieri. Contro la sua volontà, egli deve rimuginare e lambiccarsi il cervello, come se fossero le cose più importanti della sua vita……E’ questa certamente una pazza malattia, credo che la più sbrigliata fantasia psichiatrica non sarebbe riuscita a costruire qualcosa di simile, e se non si potesse averla sott’occhio tutti i giorni nessuno si risolverebbe a crederci”
Colgo innanzitutto una cosa : quella fiducia che Freud sembrava accordare, allora, alla “fantasia psichiatrica” sarebbe forse, oggi, molto delusa nel constatare che si è verificata piuttosto, attraverso la serie dei DSM, una sorta di de-costruzione della “pazza malattia”.
Constatiamo piuttosto uno smembramento del quadro clinico , dove i “sintomi” vengono enucleati, enumerati, ridotti allo statuto di disturbi ….è una specie di morte della fantasia (e allora anche della “pazzia” ?), di appiattimento dell’esercizio diagnostico, di elencazione mono/tona ….. Forse non c’è moltissimo di nuovo sotto il sole perché qualche pagina più avanti – sempre in quello scritto – Freud liquida come un “misero capitolo” la posizione della psichiatria rispetto alla nevrosi ossessiva, dicendo:
pag.236 “essa dà un nome alle diverse ossessioni, ma non dice nient’altro su di esse. In compenso sottolinea il fatto che coloro che presentano tali sintomi sono degenerati . E’ una magra soddisfazione ; in effetti è una valutazione, una condanna, invece di una spiegazione”
All’opposto di questa sterile nominazione, colpiscono, a mio avviso, la vivacità, la vivezza, lo stupore , perfino l’ironia discreta, leggera, con cui Freud abbozza, nel frammento che ho letto, la presentazione della nevrosi ossessiva. Potremmo, semplicemente, parlare di entusiasmo ? Intendo questo entusiasmo di Freud nel senso più antico della parola, nella sua origine greca che vuol dire “essere ispirato”..l’incontro con la nevrosi – ossessiva in questo caso, come già con l’isteria era successo – lo ispira a sapere di più, a capire, a penetrare, con gli strumenti di cui dispone, nei meandri di un funzionamento psichico apparentemente così disfunzionale da risultare assurdo, insensato e quasi offensivo rispetto all’intelligenza del soggetto. A Freud non basta la “magra soddisfazione” del giudizio, è il desiderio dello psicoanalista che lo trascina e lo trascina verso il saperne della struttura: questo sapere è l’unico senso che la parola diagnosi può avere per la psicoanalisi ed è un sapere imprescindibile per orientare in modo etico la direzione di una cura.
Nel 1932 Freud ricorre ad una immagine suggestiva per rappresentare il suo concetto di “struttura”, cito :
“….siamo avezzi all’idea che la patologia possa rendere evidenti, ingrandendole e rendendole più vistose, condizioni normali che altrimenti ci sarebbero sfuggite. Dove essa ci mostra una frattura o uno strappo, normalmente può esistere un’articolazione. Se gettiamo per terra un cristallo, questo si frantuma, ma non in modo arbitrario ; si spacca secondo le sue linee di sfaldatura in pezzi i cui contorni, benché invisibili, erano…determinati in precedenza dalla struttura del cristallo. Strutture simili, piene di strappi e di fenditure, sono anche i malati di mente” (La scomposizione della personalità psichica – Introduzione alla psicoanalisi nuova serie di lezioni, vol. XI op.).
In poche righe troviamo dichiarata la prospettiva in cui la psicoanalisi coglie e situa il soggetto : il soggetto umano, il soggetto umanizzato dal trauma che l’immissione nel legame sociale comporta, il soggetto attraversato dall’Edipo e ferito dalla castrazione, è innanzitutto un “malato”….si ammala di una struttura. La “mente” di cui Freud ci parla, non è un organo e non è localizzabile in nessun luogo biologico, cerebrale o neurologico, non è una realtà oggettivabile attraverso procedimenti di indagine scientifica, non è penetrabile, misurabile attraverso qualsivoglia strumento : la mente è un nome che Freud dà a quel montaggio pulsionale che è il segreto invisibile del cristallo. Invisibile, non arbitrario ; ciascuno soffre, quando un certo equilibrio compatibile con il principio di piacere si rompe, rispondendo con modalità sintomatiche coerenti con la struttura e orientate da una logica intrinseca ad essa. Per Freud la “crisi” mette a giorno – in modo repentino e a volte violento – la “realtà”, opaca a sé stessa di quell’assetto libidico e relazionale che ha sostenuto, fino ad un certo momento, il narcisismo del soggetto e la sua identità.
Perciò, non c’è un rapporto deterministico, meccanicistico – nell’ammalamento psichico – tra cause patogene ed effetti sintomatici, i sintomi sono sovra determinati: via via che Freud abbandona l’ipotesi – per un certo tempo mantenuta – di un trauma avvenuto nella realtà, subìto dalle sue pazienti isteriche, storicamente riconducibile ad un evento contingente, sempre più diviene attento alla “realtà psichica” e dà credito ad essa come ad una “altra scena”, inconscia, dove non ci sono né testimoni né complici e, virtualmente, non c’è nulla da scoprire, ma piuttosto qualcosa da ri-conoscere, per poterlo assumere ed integrare nel proprio sapere cosciente : non (non solo) la “verità” dei fatti successi, trasfigurati dai ricordi di copertura, ma quella del soggetto, cioè la sua versione della propria storia e della parte che si è preso in quell’intreccio di tragedia e di commedia che è – come dirà Lacan – “la sua stupida e ineffabile esistenza di vivente”. E’ la scoperta enorme di Freud, l’eredità teorica ed etica che ha lasciato a chi lo voglia seguire sulla strada della psicoanalisi: la realtà psichica è una struttura fantasmatica e le sue formazioni – le fantasie consce e quelle inconsce, i sintomi, i sogni, i lapsus, i motti di spirito – sono impregnate di un godimento e orientate da una logica singolare, per ciascuno. La scena psichica è dominata dal fantasma, che sostiene e organizza un certo montaggio pulsionale e dà conto di quella recondita posizione di “oggetto” che ciascuno inconsciamente si è dato, oggetto predisposto o sottoposto ad un certo incontro con l’Altro e alla ripetizione insita in esso. In fondo, nessuno è innocente rispetto al proprio destino, in senso psichico, ossia alle sofferenze, alle inibizioni, alle angosce , ai sintomi di cui si lamenta e che ci consegna, quando entra nel dispositivo analitico. Possiamo rovesciare questa prospettiva, perché è un processo dialettico: neppure potrebbe esistere un approccio di cura psicoanalitica se si dimenticasse che Freud ha parlato di “scelta”, “scelta della nevrosi”. Molti anni dopo di lui, Lacan – a riguardo della psicosi – parlerà di una “scelta insondabile dell’essere”. Formula concisa, parole che brillano ostiche, difficili da intendere – credo – nel senso di volerle ascoltare – oggi, nel firmamento degli allestimenti “psicoterapeutici” tecnicizzati ( test, protocolli ecc.) e in una cultura diffusa che esalta le “scelte” consapevoli degli individui e le battaglie per i diritti e una padronanza di volta in volta sociale, civile, politica ecc. Non è ovviamente in dubbio la legittimità di sostenere e condividere, collettivamente, nei legami sociali, il principio inalienabile della libertà di scelta. La psicoanalisi non ha nulla da obbiettare in questo, ha tuttavia un sapere eccentrico, forse disturbante…pur sempre diffusore di quella “peste” che Freud, nel suo viaggio del 1909 negli Stati Uniti, è consapevole di portare ad una comunità scientifica già entusiasta e ancora ignara : è il sapere di un limite, che arresta il sapere stesso – teorico e clinico – su di una soglia che, certo, può a tratti schiudersi su quel segreto insondabile dell’essere, ma non deve essere forzata, pena cadere in una pratica deragliante dal binario dell’etica e maldestramente pedagogica, moralista, infantilizzante. Mi sembra che – nell’ “orizzonte della nostra epoca” questo deragliamento sia in atto e che, facendo leva su facili e immediate suggestioni, sia capace di suscitare molte simpatie.
Un furor sanandi preme oggi e tende a travolgere quegli argini etici che la “scelta” fondativa dell’essere pone al soggetto, se lo si vuole riconoscere nella sua irriducibile singolarità di vivente…inguaribile vivente. Lacan diceva che la vita non vuole guarire, è molto provocatorio con queste parole, ma non sono parole di resa….curarla è possibile, ma bisogna restituire alla parola “cura” tutta la dignità del suo significato originario “pensiero, riguardo, attenzione, considerazione….”
Il corollario del furor sanandi è, mi sembra, una sorta di “furor oggettivandi”: riduzione dei soggetti a consumatori, di farmaci , di suggestioni terapeutiche, di consigli comportamentali, di diagnosi ecc. C’è un sapere a pioggia sui “sintomi” della modernità: depressione, disturbi alimentari, attacchi di panico, dipendenze patologiche ecc… Queste nominazioni sono tanto abusate quanto mute, nel senso che non dicono nulla rispetto alla struttura psichica soggettiva, non danno una indicazione efficace per il discernimento diagnostico della struttura che, nella classica tripartizione freudiana, è piuttosto minimalista : nevrosi, psicosi, perversione. Mi sembra che l’insegnamento di Freud e poi quello di Lacan ci guidino, rispetto alla diagnosi, più sulla “via del levare” che su quella “del porre” il che significa compiere un esercizio di riduzione – di fronte ad un “caso”- ai suoi nodi cruciali. E’ una questione etica perché – come dice Colette Soler – “….la questione dell’epistemologia delle classificazioni ha delle incidenze pratiche. La diagnosi ha un effetto sull’analista, sul modo in cui pensa il caso, e a livello del desiderio stesso dell’analista. Dunque quando si classifica bisognerebbe essere ben sicuri” (La conversazione di Arcachon , ed. Astrolabio pag.218).
Le emergenze fenomeniche, quale che sia la loro coloritura affettiva e l’intensità con cui si manifestano, fanno segno di una sofferenza, di una perturbazione, di una crisi nella vita di un soggetto, a volte inaffrontabile con le risorse e le difese che fino a quella congiuntura lo avevano sostenuto. Tuttavia questi segni – variamente connotati come aggressività,ansia, angoscia,rifiuto, compulsione, apatia ecc….la lista potrebbe infinitizzarsi – di per sé presi come entità morbose non sono esclusivi di una certa patologia, non sono indici diagnostici, in senso strutturale ; forse meno che mai oggi, nella clinica attuale, poiché se l’involucro formale dei sintomi è plasmato dalle suggestioni immaginarie, dalle influenze culturali, dai significanti “maitre” che scorrono nel discorso, ebbene oggi la circolazione di tutto ciò – nel campo simbolico – è notevolmente accelerata e, direi, saturante.
Non so se si tratti di una leggenda metropolitana, ma ho sentito di un medico di base, sicuramente spiritoso e forse esausto che, nella sala d’attesa del suo studio aveva esposto un cartello con su scritto “i pazienti sono pregati di non scambiarsi i sintomi”. Aldilà dell’ironia, che certo alcuni avranno colto, sorridendo, stento a credere che quel monito sia servito allo scopo…ma forse lo scopo era solo sorridere.
Tuttavia, proprio perché scambiarsi i sintomi è possibile e da sempre – pensiamo al “contagio isterico” descritto da Freud, alla tosse di Dora come identificazione al sintomo paterno, ai siti internet che informano…e anche insegnano cosa sono la depressione, l’anoressia ecc –tanto più mi sembra cruciale, per i curanti, non scambiare un “sintomo” per una struttura.
Dice Lacan ( Seminario X L’angoscia ) “In psicoanalisi, quando si tratta del soggetto, è sempre essenziale riprendere la questione della struttura. E’ questa ripresa che costituisce l’autentico progresso, è essa sola che può far progredire ciò che si chiama impropriamente la clinica”
Torno a Freud, scrive :
“nella nevrosi ossessiva….l’affetto di autoaccusa può trasformarsi…in un qualsiasi altro affetto spiacevole….così l’autoaccusa…si trasforma con facilità in vergogna…in angoscia ipocondriaca…in angoscia sociale….in delirio di attenzione….in tutti questi casi il contenuto mnestico dell’azione riprovevole può tanto trovarsi rappresentato nella coscienza quanto restare…sullo sfondo, la qual cosa rende assai difficile la diagnosi. Molti casi che ad una indagine superficiale vengono presi per comune ipocondria appartengono a questo gruppo di affetti ossessivi….in particolare la cosiddetta….melanconia periodica sembra assai spesso risolversi in affetti e rappresentazioni ossessivi ciò che, dal punto di vista terapeutico, non è cosa indifferente”
E’ così, Freud continua ad insegnare: “dal punto di vista terapeutico non è cosa indifferente, e può essere addirittura disastrosa, non sapersi orientare nella diagnosi, per discernere se il paziente che incontriamo è – innanzitutto – nevrotico o psicotico Questo è il primo interrogativo clinico cui siamo chiamati a rispondere, sia nella pratica personale che in quella istituzionale e nella supervisione e formazione dei giovani psicoterapeuti . Anche la gravità e l’invasività di manifestazioni “tipicamente” nevrotiche – rituali ossessivi, angosce fobiche ecc – ci invitano alla prudenza, alla responsabilità di capire se abbiamo a che fare con un sintomo come metafora significante sul versante simbolico oppure come modalità di compensazione o supplenza, a livello immaginario, per arginare un godimento dilagante e mortifero”.
Penso che siamo talvolta a rischio di scivolare da una posizione di “rigore” ad una di “furore” diagnostico : succede quando si avverte la necessità di capire “chi” abbiamo di fronte come un’urgenza, e la fretta di “concludere” incalza il tempo per “comprendere”, succede soprattutto con quei casi drammatici, che si presentano a rischio, rischio di passaggi all’atto, auto o etero lesivi, idee suicidarie, condotte alimentari gravemente abnormi ecc. Colette Soler, in uno scritto che si intitola “Le case controle la cure” scrive :
“Bisogna intendersi su cos’è il caso. L’etimologia ci rinvia al participio passato del verbo cadere. Il caso comincia all’inizio, come qualcosa che ci cade addosso, come un tipo di sintomo impossibile da sopportare”.
A misura di questo “impossibile da sopportare”, che ci cade addosso, siamo messi alla prova, nella prospettiva di un percorso, di un processo conoscitivo che richiede anche un tempo, il tempo che ci vuole per guadagnarsi quel tanto di transfert che possa trasformare una “consultazione” con uno psicoterapeuta qualunque in un legame non anonimo, singolare, un legame di fiducia. Ovviamente non entro adesso in questo argomento, ma – sinteticamente – possiamo dire che il transfert “fa diagnosi”. Per quante informazioni possiamo avere – per esempio attraverso un dossier clinico – sull’evoluzione e la storia di un paziente, esse non potranno rispondere tuttavia ad una domanda che è fondamentale : che cosa succede nel transfert ? cosa succede nell’incontro reale e nel legame che vi si inaugura tra il terapeuta e il paziente ? Che transfert “fa” il soggetto, chi siamo per esso ? Le varie coloriture affettive e declinazioni del transfert possono delucidare qualcosa, sulle venature del “ cristallo psichico” : supposizione di sapere – idealizzazione – appello all’amore – provocazione del potere terapeutico – sfida –reazioni terapeutiche negative – diffidenza – erotizzazione – svalutazione – indifferenza – opposizione ecc. La presenza, l’intensità, la prevalenza in ogni caso singolare – di particolari affetti e modi di ingaggiarsi nella relazione tracciano una via che si tratta di considerare, per poter reperire la posizione del soggetto nel suo rapporto, inconscio, con l’Altro. Come ?
Freud diceva che “occorre solo dare tempo”.
Solo! E’ un’ardua impresa, oggi non solo per la frequente congestione del lavoro nei servizi pubblici, ma anche perché – e penso ai tempi sicuramente più dilatati e agevoli del lavoro nel privato di uno studio – l’offerta di un tempo per l’Altro, in fondo è questa la premessa della psicoanalisi ( e la promessa ….) viene avvertita, spesso, come un’ insulto alla necessità di sapere subito, di risolvere in fretta, nella frenesia del mordi e fuggi che investe ogni campo di consumo. In modo molto immaginario, ci si vuol credere – spesso – al fatto che esistano delle scorciatoie per aggirare le inerzie e i punti “morti” di un lavoro soggettivo, che ci siano dei “trucchi” per risparmiare tempo .
Una paziente mi dice che è “ più forte” di lei leggere tutti i libri che trova sulla depressione, cercare in internet ogni sito che ne parli, dando consigli e testimonianze sul come uscirne: per un momento questo “sapere” le dà sollievo, poi si sente “ancora più angosciata”, e di nuovo spinta a “saperne di più”, a trovare quel sapere che ancora manca, per sapere “davvero” che cosa le sta succedendo. “Davvero?” le rinvio…e questa parola, tornandole indietro come domanda dal luogo dell’Altro, nel transfert, assume per lei una risonanza diversa, ambigua, e avrà un effetto interpretativo, scollandola dal piano immaginario dell’attesa di ricevere la verità oggettiva, la verità più vera, per rettificare una posizione soggettiva sul piano simbolico: “ sapere….lo voglio davvero?”
Patrizia Gilli
Mestre, 14/12/2013 – relazione presentata nella giornata di apertura dell’Icles “Psicoanalisi e Psichiatria: la sfida delle diagnosi”