Una scrittura da ascoltare.
Annalisa Davanzo
La scrittura è una traccia in cui si legge un effetto di linguaggio. Occorre assicurarsi della scrittura e con essa. Questo effetto resta nondimeno secondo rispetto all’Altro ove il linguaggio si iscrive come verità, poiché nulla di quanto potrei scrivere reggerà se non lo sostengo con un dire che è quello della lingua, e con una pratica.
Lacan ha scritto poco, neanche 1500 pagine bastano a raccogliere nei due volumi, Ecrits e Autres Ecrits, tutto quello che ha pubblicato durante la sua vita; il secondo completa la serie dei testi prodotti fino al ’76, ma non è stato Lacan ad occuparsi di raccoglierli. La sua prima opera di scrittore resta un unicum a cui si riconcede scrivendo nel ‘70 la prefazione del primo dei due volumi in cui gli Ecrits vengono ristampati in edizione livre de poche (ma il secondo apparirà solo nel ’99).
Qui segnala che, nei quattro anni intercorsi, gli psicanalisti se ne sono serviti non per intendere qualcosa del loro stesso funzionamento inconscio ma, al contrario, per credere di saperlo padroneggiare, mentre tutto quello che padroneggiano sono dei termini che usano a vanvera. I sintagmi lacaniani che egli stesso ha messo in circolazione hanno fornito agli oggetti di consumo del mercato della cultura degli imballaggi migliori. Mea culpa. Comunque non c’è metalinguaggio, è sempre de te che la fabula narratur, e se il nuovo lettore si lascia prendere dal suo gioco, se lo prende con un pizzico di scherzo, saprà di essere uno degli intimi, e che può venire nella mia Scuola, a far pulizia, che è, per l’appunto, ciò che ci fa tutti uomini di fatica, a condizione di voler intendere.
Nel ’70, dunque, gli Ecrits aprono sulla Scuola, rinviano esplicitamente al Seminario in cui da sempre Lacan sottopone i sui percorsi all’innocenza del tout venant che incontra, qui, un lavoro paziente, attento a non saltare nessun passaggio che possa risultare utile a tradurre il linguaggio della teoria in termini correnti, in esempi immaginifici, capace di decomporre le astrazioni ripercorrendo a ritroso la via che le ha prodotte a partire dalla materialità della pratica analitica. Questo è il luogo e il tempo per quello che viene al primo posto del suo ordine preferenziale: che ci siano degli psicanalisti.
Il che pone l’interrogativo su che cosa sia un insegnamento analitico, sulle modalità a cui Lacan affidava la trasmissione del suo insegnamento e, in definitiva, della psicanalisi stessa, dato che delle sue lezioni abbiamo i testi solo grazie a chi c’era e le ha stenografate prime, e registrate poi.
Di sicuro non l’affidava agli Ecrits che marchiava con un perentorio “Pas à lire”. A che farne, allora?
Nel ’70 la Scuola a cui invitava il lettore funzionava a pieno regime, ma la stesura degli Ecrits, pubblicati nel ’66, viene giusto dopo quel fatidico ’64 in cui si consuma la rottura con l’IPA ed egli fonda (21 giugno), l’Ecole Freudienne de Paris, la sua Scuola. Questo viraggio viene scritto, assicurato, negli Ecrits che, come dirà nella prefazione del ’70, furono non solo raccolti ma composti, riscritti in parte, a titolo di memoria di rifiuti, non senza pagare il debito ai suoi antecedenti, ma rivendicando soprattutto la teoria e la pratica che gli hanno valso l’anatema, e se possono sembrare disseminati su anni poco riempiti, è perché ha dovuto preparare il suo uditorio.
Ora, nel ’66, appunto, è col suo proprio desiderio che si confronta, è il suo desiderio la posta in gioco che preordina lo stile con cui vorrebbe condurre il lettore ad una conseguenza ove egli debba metterci del suo. La questione non è comunicare il sapere, bensì causare il desiderio, senza cui non c’è trasmissione, non della psicanalisi.
Come dirà più tardi, la pagina stampata ha come suo destino la poubelle, la pattumiera, e con un gioco che ci consente la lingua italiana, potremmo dire che va da un pube all’altro, mettendo in gioco la libido, che evoca quel tanto di godimento che il desiderio veicola. A modo suo lo diceva anche Croce, la creazione riproduce l’atto del creare, al punto che chi vi si accosta con la sensibilità ma non anche col cuore saldo che l’atto esige, rischia la sindrome di Stendhal, la vertigine.
L’obiettivo della scrittura è cogliere la carne della parola, il corpo sottile del significante, per scrivere l’atto stesso del dire, l’epifania del corpo parlante.
E’ questo il punto di incontro di scrittura e psicanalisi che, anch’essa, lavora per mantenere aperta l’interrogazione e l’invenzione nella scoperta dell’impossibilità, per il soggetto, a dire di sé, del perché c’è, perché così, uomo e / o donna. Come la scrittura e attraverso la scrittura, la psicanalisi ha di mira il punto insorpassabile che Freud ha chiamato Urverdrangung, la rimozione originaria, il buco nero in cui sprofonda il senso dei sogni e dei sintomi, la rimozione che comincia prima che ci sia alcunché da rimuovere perché da subito, dal principio, parlare vuol dire parlare di altro da quello che conta.
Questo impossibile a dire diventa la causa di tutto quello che si dice, che si cerca di dire, che si accanisce a dirsi e per questo lo si scrive, per catturare il suono, il sapore in bocca, il tempo dell’atto di dire che inevitabilmente “resta dimenticato dietro ciò che si dice in ciò che si intende”.
Contro questo oblio si esercita la scrittura di Lacan, ed è proprio lo sforzo di cogliere e fermare l’atto dell’enunciazione che la rende illeggibile.
Nei testi ci sono sempre degli indicatori della contingenza a cui si devono, dei riferimenti al qui e ora che ha fatto precipitare lo scritto, dei rinvii a fatti, persone e luoghi che ai suoi vicini erano riconoscibili anche dietro allusioni appena velate ma che ormai sono divenute opacamente enigmatiche. Agganci alla cronaca, quasi pettegolezzi, ironie, sarcasmi e proteste che evocano una dimensione di quotidianità, e aprono su quel confine tra pubblico e privato in cui si impigliano le reazioni vivaci del dottor Lacan.
È il versante del caso, che si continua nella necessità dello stile , perché le argomentazioni si sviluppano, a volte si avviluppano, nel gongorismo che Lacan si rivendica e in cui riversa quel materiale magmatico di cui era fatto l’uomo, prima che il suo discorso. La scrittura sola dice quel vero del vero che un allievo gli chiedeva al Seminario, cioè nel posto sbagliato, il luogo in cui, per tenere un discorso, come qualunque soggetto, Lacan si presenta assoggettato al significante, e, come chiunque, prende la parola dal posto del sembiante.
Nell’insegnamento lacaniano il sembiante non è né finzione né convenzione, è piuttosto l’incontro dell’essere pulsante con la logica implacabile del linguaggio che ci esclude dal reale dell’essere con lo stesso movimento con cui ce lo fa toccare; è la condizione, per il corpo, per entrare nel discorso ed implicarsi nel legame sociale, e dunque si fonda su una scelta non estetica ma etica.
La scrittura si esercita appunto a rompere l’involucro con cui il sembiante individua, ma anche rinchiude e nasconde, il soggetto per arrivare a nominare il buco originale in cui il reale del godimento è scomparso.
Essa non ricalca il sembiante, …ma i suoi effetti di lingua, quella forgiata da chi la parla, erodendo invece il significato, e per questo, in Lituraterre, Lacan la chiama litura, per segnalarne l’effetto di cancellazione, di erosione. Non c’è niente di più distinto dal sembiante del vuoto scavato dalla scrittura, vuoto che è ciotola pronta ad accogliere il godimento . La sfida della scrittura è quella di rendere reale il simbolico, mission impossible, ma quello è lo sforzo, e di farlo fissando quel dire che sostiene tutto ciò che viene detto, a partire da un voler dire che veicola il desiderio del soggetto e può causarlo, da pube e pube, come dicevo, con l’effetto di far pullulare l’equivoco.
Non stupisce allora che Lacan abbia affidato l’essenza del suo insegnamento ai matemi, inequivoci ed interamente trasmissibili in quanto costruiti con la lettera presa a prestito dalla scienza del reale per eccellenza: la matematica. Desertificate di ogni godimento e di ogni senso, le letterine con cui scrive le sue formule e i suoi algoritmi formalizzano il sapere in modo scientifico, vale a dire in un modo che esclude radicalmente (Lacan parla precisamente di Verwerfung, forclusione) la verità del soggetto, del suo desiderio e del suo godimento. Resta a carico di ciascuno, di lui in primo luogo e di chiunque voglia assumersi il rischio di un insegnamento che aspiri ad essere analitico, animare quelle letterine che possono sostenerlo tra sapere e verità.
C’è da chiedersi quale ruolo assegnasse al suo seminario, e a tutto il lavoro che gli ha votato per 27 anni, rispetto alla trasmissione della psicanalisi.
Lacan ebbe a dire che Freud, dopo aver messo tutto per iscritto, aveva posto a custode della sua vita e della sua opera il più stupido dei suoi discepoli, senza offesa , quello che meno si sarebbe azzardato a metterci del suo. E Lacan?
Nel corso del seminario XX dirà: tra tutti i seminari che qualcun altro deve editare, quello sull’etica della psicanalisi è il solo che riscriverò io stesso e di cui farò uno scritto. Bisogna pure che ne faccia uno. Sta parlando del VII, sull’etica della psicanalisi, che non farà, e invece quello stesso anno, nel ’73 inizia la pubblicazione dei seminari a partire dall’undicesimo, quello tenuto nel ‘64 nella nuova sede dell’Ecole Normale dopo la fondazione dell’EFP, ed è subito Miller.
Nel suo testamento affiderà la responsabilità della sua eredità teorica a Jacques-Alain Miller, brillante filosofo normalien a cui nel ’66 è stato chiesto/intimato di curare l’indice analitico che egli trasforma in indice ragionato dei concetti principali; lo fa anche precedere da un Chiarimento in cui esprime il suo entusiasmo per l’espansione senza limiti della formalizzazione del discorso, ma prende le distanze dallo stile ellittico necessario, dice Lacan, alla formazione degli analisti, può farlo dato che, per parte sua, non è tenuto a preoccuparsi dell’efficacia della teoria in questo campo. Insomma, Lacan ha scelto di affidare la stesura dei suoi seminari ad un non-analista; in seguito lo è diventato, ma per tutti gli anni 70 era solo (??) un frequentatore appassionato del suo corso e della sua Scuola, particolarmente dotato di esprit de geometrie.
Nell’avvertenza che inserisce alla fine del Seminario XI, Miller segnala che si è voluto non contare affatto e procurare, dell’opera parlata, la trascrizione che testimonierà, e varrà per l’avvenire, per l’originale che non esiste. L’originale è perduto, col gesto e l’intonazione, l’enunciazione è perduta, ma resta la stenografia fedele, parola per parola, raddrizzata, lo scarto non ammonta a tre pagine. Il più scabroso è inventare una punteggiatura perché ogni scansione decide del senso. Ma era il prezzo per ottenere un testo leggibile, e secondo questi principi sarà stabilito il testo di tutti gli anni del seminario. Il patto è concluso.
Nei testi così stabiliti, confrontati con i primi, stenografati e poi stampati ad uso interno dall’ALI, la differenza si riduce davvero all’eliminazione di poche parole necessaria per chiudere e riaprire le frasi che altrimenti si inanellano l’una nell’altra, e tuttavia l’intervento ha un peso che non si lascia liquidare così semplicemente. Anche se si annuncia nel modo impersonale, si è voluto non contare, Jacques-Alain Miller c’è, eccome.
Ne darò due esempi che mi riguardano personalmente e che mostrano due modi molto diversi in cui prende corpo la sua presenza.
L’ultimo capoverso del seminario XI riguarda il desiderio dell’analista e, per la prima volta Lacan gli associa l’amore: il desiderio dell’analista, dice, è di ottenere la differenza assoluta che si ha quando, confrontato col significante primordiale, arriva ad assoggettarglisi. Tradotto, secondo me: il desiderio dell’analista punta ad ottenere che il soggetto (l’analista stesso) accetti come nome proprio quel significante segreto che, originariamente, ha ricevuto, ovvero si è preso, dall’Altro; in altri termini, punta a che egli si assuma la responsabilità del suo fantasma. Esempio ispirato al seminario II: qualunque cosa gli predichi l’Altro, è il soggetto, anzi è il bambino, teso com’è a capire chi è lui e che cosa vale per l’Altro, a raccoglierne i segnali e a tradurli in un enunciato della serie: Tu sei colui che mi seguirai, se vuoi, oppure che mi seguirà, così deve essere.
Esempio tratto dalla clinica: il tormentone esplicito della madre “Tu sei (sarai) il bastone della mia vecchiaia” è diventato, per un giovane ossessivo, “Tu diventerai ricco, a costo anche di andar lontano, per assicurare la mia vecchiaia”, e adesso mette in conto alla madre l’ambizione che lo ha portato all’estero dove qualcosa non ha funzionato per cui si trova ora, rientrato, sulla stessa linea di partenza dei più giovani di vent’anni, dunque in condizione di farsi mantenere da lei. Ora, il desiderio dell’analista concerne non solo quello che farà l’analista ma anche colui che, terminata l’analisi, si fa analista della propia esperienza interminabile. Dunque, per questo giovane consisterà nel separare le speranze della madre dal desiderio dell’Altro (la regina Isabella?) a cui lui ha risposto: Sì, sarò Cristoforo Colombo, a partire da nient’altro che dal godimento senza nome che lo consumava e che ha potuto così nominare ed orientare.
Questa operazione è banale solo nei termini umoristici dell’osservatore, ma a lui costerà lacrime e sangue perché comporterà la consapevolezza della solitudine, incondivisibile, il cui il soggetto desidera e gode. Qual è il guadagno?
Solo qui, conclude Lacan, può sorgere la significazione di un amore senza limiti, perché fuori dalla legge e dai suoi limiti, VIRGOLA, dove soltanto può vivere.
Per come lo capisco io, il valore che si aggiunge al desiderio della differenza assoluta è l’accesso ad un amore nuovo, fuori legge nel senso che non deve niente all’identificazione edipica e al narcisismo che la sostiene, giacché, come si legge nel seminario VIII, Freud ha un bel distinguere tra amore enclitico e amore narcisistico, di fatto l’amore in quanto tale non può che radicarsi nel narcisismo dato che si comprende in una formula unica che suona “Lui ha quello che manca a me”, “Io ho quello che manca a lei”, e/o viceversa, con la conseguente aspirazione a fare Uno, restaurando la sfera perfetta di Aristofane.
L’amore a cui aprirebbe il desiderio dell’analista sarebbe invece l’amore dell’alterità che lascerebbe sussistere l’Altro, e dunque anche il soggetto, nella sua mancanza, azzerando l’opzione “mi piace – non mi piace”, “questo sì e quello no”. Tale azzeramento mi pare il frutto più prezioso della psicanalisi in quanto è non solo la condizione per fare lo psicanalista, ma, ancora prima, la condizione per vivere da essere umano tra gli umani, che non sono sempre gradevoli, neanche come vicini in filovia, ma con cui possiamo scegliere di fare per amore quello che dovremmo fare per forza, conviverci.
Avendo posto in questione questa lettura (avvalorata da un passaggio del seminario XX) ad un convegno internazionale, sono stata liquidata con l’affermazione che la virgola, messa dopo legge, determina, al contrario, che è solo nella legge che l’amore può vivere. Ma la virgola sarà di Lacan o di Miller?
La persona interpellata mi aveva comunque detto la sua, e io mi son tenuta la mia.
In un’altra occasione eravamo invece d’accordo, con la stessa persona, nel rifiutare la cancellazione di un termine a favore di un altro nel seminario VII.
Il 12 gennaio 1983, all’anfiteatro de Arts et Métiers, Miller tiene il suo seminario e parla, appunto, di questo corso di cui sta lavorando a stabilire il testo (che apparirà nell’86).
A proposito del rapporto di das Ding, la Cosa, col significante, dice, ci sono tre passaggi in cui Lacan cerca di definirlo. Purtroppo nella stenografia è scritto in tre modi diversi benché la locuzione sia evidentemente la stessa. Se ne era accorto molto tempo addietro, e sapendo di doverci prima o poi arrivare, aveva interrogato Lacan il quale, come faceva spesso, lasciava capire che ormai toccava agli altri sapere, e che lui era preso dal seminario prossimo, non da quelli passati. E allora lui sceglie, senza inquietudine, una sola delle tre formule per tutti e tre i passi, motivando la scelta col criterio, perfettamente filologico, della lectio facilior: il verbo scelto compare in altri sintagmi analoghi in diversi testi, contemporanei e posteriori.
Molto ragionevole, salvo il senza inquietudine, dato che l’incertezza del testo rifletteva, a suo stesso dire, una difficoltà anche di Lacan. Ma allora, perché non scegliere la lectio difficilior, altrettanto scientificamente filologica, tanto più che risultava a posteriori confermata dagli sviluppi più tardi, in particolare il seminario su Joyce. In quella circostanza non era previsto che si facessero domande, e quindi mi sono silenziosamente scelta la mia versione, quella stenografica. Qualche anno fa la persona della virgola riapre il caso: durante una lezione di RSI, 1975, ha interpellato Lacan facendo riferimento alla variante in causa, senza riceverne smentita, e dunque la considera confermata e si interroga sulla scelta editorale.
Di fatto, le tre formule non sono affatto intercambiabili, e molti insistono da molto tempo per un’edizione critica dei testi che riporti almeno le varianti più controverse, ma Miller ha sempre rinviato al mittente le proteste, e ne era anzi divertito: le edizioni che cura le decide lui. E ha ragione, tanto più dopo aver messo su Internet l’opera omnia, che tutti possono consultare, ma di cui solo lui stabilisce e regola la stampa. Non è questione di copyright, ma di coerenza: nello stesso seminario che ho seguito nell’83, Miller enunciava il principio che lo guidava nel suo lavoro di rielaborazione del percorso di Lacan, ed era un principio di ripartizione in tre grandi periodi in cui sarebbero stati indagati e sviluppati ciascuno fino a toccarne il fondo, ovvero i limiti e la frontiera su quello seguente: nell’ordine, l’Immaginario, il Simbolico e il Reale, e a questo principio si è sempre attenuto, a costo di oscurare, o semplicemente non rilevare, i passaggi in cui Lacan eccedeva rispetto al sapere che stava mettendo in piano e che disaminava col rigore di una disciplina che a volte sembra costargli fatica, quando lascia cadere degli spunti che d’improvviso lo ispirano ma anche lo distraggono dagli approfondimenti che ha preparato. Lui è dalla parte di Miller quando scrive, Succede che nostri allievi prendano l’abbaglio, nei nostri scritti, di trovare “già lì”ciò a cui il nostro insegnamento ci ha portato più tardi. Non basta forse che ciò che è lì non gli abbia sbarrato la strada? .
Per questo credo che abbiano ragione tutti, quelli che ritagliano delle prospettive strette e quelli che le allargano a tutto l’orizzonte e sicuramente Lacan non ha smentito nessuna richiesta di conferma, secondo me non gliene importava una tripette, (sua espressione) cioè un fico secco. Del resto, non sosteneva che, per lui, tenere il seminario equivaleva a passare la passe senza soste? La passe non si sostiene per iscritto, si parla, a qualcuno che prende appunti per poi riferirla, fedelmente, al cartello, i cui componenti dovranno farsi un’idea del testo originario, attraverso le coincidenze e le differenze dei testimoni, che apposta sono due. Grazie tante, dunque, a tutti i passeurs, i registratori, le telecamere, gli stenografi, i dattilografi, Jacques- Alain Miller e quanti ci portano i loro appunti, e rendono possibile, anche se non semplice, a chi lo voglia, tentare di cogliere, aldilà degli scritti, la voce di Lacan.